martedì 21 luglio 2009

Rapito dalla televisione

 La televisione cinese ha il potere di ipnotizzarmi. Sarà perché non sempre afferro quello che dicono, sarà perché ci sono decine di canali in cui fare zapping selvaggio, ma quando la accendo vengo rapito dallo strano mondo dell’etere cinese. Alcune cose mi stupiscono: non ci sono film occidentali, o almeno non li trovo, se non film che hanno minimo dieci anni, spassosamente tradotti nella lingua locale: quindi li evito come la peste, considerando anche che un dvd solitamente ha prezzi irrisori. Mi piacciono di più certi varietà a base di sfide canore, in cui si possono affrontare, senza apparente imbarazzo, un ufficiale dell’esercito che si scatena in divisa cantando un classico cinese interpretato in chiave rock, uno gruppo di performers su trampoli dediti a canzoni tradizionali ed un trio misterioso che riprende in chiave trip-hop una canzone tibetana. Purtroppo non ho avuto la forza di arrivare a vedere chi avesse passato il turno.--br-- Su un altro canale davano un film sulla guerra anti-giapponese degli anni ’30, apparentemente una produzione recente e ben curata, piena di patriottismo, di difesa della patria, coraggio ed abnegazione. Perfettamente inserita nel clima di questi mesi che precedono l’anniversario per i sessant’anni della Repubblica Popolare Cinese che cadrà il prossimo ottobre. Ma ciò che mi seduce di più, da perfetto figlio della società dei consumi trapiantato nel paradiso del capital-socialismo, sono gli spot. Invadenti, molesti, ripetitivi quasi che fossero un mantra commerciale recitato nel tempio profano del mio tubo catodico. Alcuni spot sono caratterizzati da un susseguirsi di immagini velocissimo, che arriva quasi a stordire in complicità con la voce narrante che non si ferma un secondo vomitando dati e pregi di computer di ultima generazione e cellulare che in apparenza potrebbero anche saper cucinare; si alternano presunti esperti di informatica a belle ragazze, in una miscela pericolosa di dati scientifici (o presunti tali) e ammiccamenti erotici (a dire il vero quasi nulli se paragonati all’eleganza delle nostre pubblicità). Si intravedo anche testimonial famosi in contesti inaspettati: Kaka per esempio pubblicizza delle caramelle per la gola il cui simbolo è un signore cinese senza troppi capelli. Mentre in un altro spot si vede un fucile da caccia grossa pronto a fare fuoco su un elefante che inspiegabilmente si trova su un campo da basket; a farci cosa? La risposta è facile, a farsi salvare ovviamente da Yao Ming, che si sta proprio allenando da quelle parti e accortosi del pericolo lascia in tutta fretta la palla per correre a stoppare, nel senso cestistico del termine, il proiettile oramai indirizzato verso l’occhio del placido pachiderma. Questa è una pubblicità progresso per la salvaguardia della natura, ed ovviamente l’eroe è Yao. Ma perché scegliere un elefante, che non è esattamente un animale cinese? Forse perché l’elefante ed il fucile da safari evocano immagini note a tutti di violenza e sfruttamento dell’avorio. Forse perché è giusto sensibilizzare i cittadini, ma è sempre meglio farlo facendo leva su situazioni che avvengono in altri paesi, così da non far sorgere l’idea che i cacciatori cinesi possano avere il coraggio di violare la legge sulla protezione animale. O forse semplicemente perché la stazza dell’elefante si addice a quella del cestista: sarebbe stato disdicevole mobilitare 2 metri e mezzo di uomo per salvare un pacioso panda o una smilza antilope tibetana.

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