venerdì 31 luglio 2009

it's a kind of (chinese) magic

 Vuoi fare i miliardi in Cina? Vuoi finalmente entrare a far parte della schiera di uomini di successo che qui hanno trovato il paradiso? Allora lascia perdere l’import-export, quello oramai è inflazionato, e poi basta vendere vestiti da due soldi ed accessori a prezzo popolare, che poi le nostre grandi firme ci rimangono male e non possono più comprarsi lo yatch. Dimentica l’antiquariato etnico, la gente si è rotta le scatole di avere robaccia di legno e ninnoli dalle forme strane in casa. Diffida del mattone, il prezzo è cresciuto, la qualità meno e poi rischi che dopo un centinaio d’anno i cattivi comunisti si riprendano la casa! Le energie rinnovabili? Di quelle ne parlano tutti ed in molti ci si butteranno, quindi è inflazionato in partenza, poi in Italia non è cosa a quanto pare. Personalmente ti sconsiglio anche l’esportazione del gelato...piuttosto la pizza, faresti felice centinaia di italiani in Cina con una pizza degna di questo nome.


E allora come si fa? Semplice, la magia!--br-- La Cina sembra impazzita per la magia, si proprio la roba di Houdini e David Copperfield, mirabolanti volteggi di carte, cocomeri nei cappelli ed incredibili evasioni da marchingegni mortali. Si sta concludendo in questi giorni a Beijing il Festival della magia, l’ho visto in televisione ed effettivamente la qualità era altissima. Sui giornali sono fioccati articoli su questa nuova passione che ha preso giovani e meno, con conseguente fiorire di pubblicazioni a riguardo, nascita di siti internet ed impennata nella vendita degli accessori del giovane mago. I negozianti affermano di aver più che raddoppiato le vendite di cilindri e conigli (che qui stranamente non si mangiano, o non molto almeno), non c’è centro commerciale che non abbia la sua rivendita di bacchette e mazzi truccati; i ragazzi hanno scoperto, come affermato in alcune interviste, che fare trucchetti da Harry Potter in salsa di soia li rende molto affascinanti, anche più che suonare la chitarra in spiaggia (questo l’ho aggiunto io). Sempre sui giornali si è dato grande risalto ai maghi cinesi ovviamente, inserendoli nella lunga tradizione del taoismo esoterico, ed esaltando in particolare quei performers che mettono in scena spettacoli che coniugano le illusioni e le tradizioni cinesi, come la pittura del viso dell’opera tradizione cinese od i costumi delle minoranze etniche, nel continuo richiamo patriottico e multietnico.


Quindi Giucas, Silvan, Otelma, Oronzo, che aspettate a venire qui?


Un augurio di buone vacanze a chi nei prossimi giorni partirà!

giovedì 30 luglio 2009

La diplomazia del basket

Nel 1971 fu il ping pong a dare inizio ai rapporti diplomatici tra Cina e Stati Uniti: i membri della squadra a stelle e strisce vennero invitati dai corrispettivi cinesi mentre erano in Giappone per i Campionati Mondiali della disciplina. Prima di loro, dalla presa di potere comunista nel 1949, solo altri 11 statunitensi erano stati ammessi in Cina, in quanto membri delle Partito delle Pantere nere. Quell’ambasciata sportiva del ’71 fu il preambolo della visita presidenziale di Nixon l’anno successivo, il momento della prima significativa svolta nei rapporti tra le due nazioni. Allora lo zio Sam guardava il drago orientale in chiave anti-sovietica. Ma quasi quattro decadi dopo i rapporti sono cambiati, e nell’incontro tra Stati Uniti e Cina in corso in questi giorni a Washington, già ribattezzato il G2, le due superpotenze oramai su guardano negli occhi. Allora fu il ping pong ad inaugurare l’omonima diplomazia, oggi lo sport che celebra l’incontro è il basket: significativo lo scatto che immortala Barak Obama ed il vice-premier cinese Wang Qishan alle prese con una palla da basket durante un momento informale, consapevoli o meno che quella palla a spicchi li lega molto più di quanto possa sembrare.


Forse che fra trent’anni parleremo di “diplomazia del basket?” 

mercoledì 29 luglio 2009

Tagli urbanistici indiscriminati

 Gli hutong a sud-ovest di piazza Tian’anmen stanno subendo un lifting. Altrove intere zone di vicoli, stradine e case tradizionali sono state rase al suolo per cedere il posto a condomini e palazzi di gusto discutibile; ma negli ultimi anni la città ha preso coscienza del loro valore storico e culturale (e turistico, ovviamente...) quindi sembra esserci una tendenza al recupero delle aree più degradate, piuttosto che la distruzione. Hanno preso piede anche associazioni e gruppi di persone che si battono per la salvaguardia di questi ambienti, tra le quali il Beijing Cultural Heritage Protection Center. Ma dopo le speculazioni edilizie, un’altra piaga di è riversata su Beijing e sui suoi quartieri tradizionali, quella della motorizzazione di massa: se vuoi riqualificare un’area e renderla appetibile a potenziali nuovi acquirenti, devi necessariamente renderla raggiungibile dalle quattro ruote. --br--Gli hutong non erano pensati per le macchine, ma solo per carretti ed in seguito biciclette. Quindi, nessuna soluzione migliore che tracciare strade carrozzabili in mezzo a questi quartieri. Vedere le mappe di questi interventi fa pensare a zebre a cui si è imposto un look da leopardi; gli interventi non hanno preso in considerazione le case di mezzo, che sono state semplicemente, e letteralmente, tagliate, ed in seguito dove possibile restaurate, oppure semplicemente rase al suolo e ricostruite in altra foggia. Camminando nella zona si vede tutta la gamma delle possibilità: alcuni vicoli sono ancora fermi ad un centinaio di anni fa, con le strade lastricate a singhiozzo, i cortili interni lasciati andare, i tetti ad arco su cui sono cresciute le erbacce, le piccionaie a coronare le abitazioni; c’è ben poco di poetico e nessun tipo di charme. Basta percorrere qualche decina di metri e si arriva sulla nuova strada, dove fremono i lavori, vengono ricostruite fedelmente le abitazioni, un grande cantiere polveroso e vivace. Altrove si vedono già i risultati, gli hutong sono stati completamente restaurati, sono in ordine, un po’ asettici a dire il vero, puliti e silenziosi. Da qui il Nido, il Cubo d’acqua ed il business sembrano più lontani del Tibet. 

lunedì 27 luglio 2009

Non è un paese per alti

 Anni fa si diffuse, con il tono scandalistico ed allarmato che è purtroppo tipico in questi casi, della nuova abitudine cinese della chirurgia estetica mirata all’allungamento delle gambe per guadagnarci in altezza. Quasi che tutta la popolazione d’improvviso avesse deciso di crescere in maniera artificiale. Va detto che la popolazione cinese, o almeno quella che vedo io, non è quello stuolo di nani che in molti pensano: l’altezza media apparentemente non è poi molto più bassa della nostra, e non bisogna dimenticare l’estensione del paese e la sua configurazione multietnica, che prevede ovviamente differenze di corporatura a seconda dei diversi ceppi di provenienza. E' noto infatti che spesso i vincitori di premi come uomini e donne più alte del mondo provengono da queste lande, ed anche la diffusione del basket dimostra la presenza di atleti alti. Ma nonostante questo, per alcuni versi la Cina rimane un paese difficile se superi il metro e settanta: difficile reperire scarpe con numero superiore al 43, a meno che non siano scarpe sportive, come se uno relativamente alto sia costretto e diventare una macchietta portando solo scarpe da basket. Difficile, anche se con i tempi il trend sembra cambiato, trovare un letto che ti accolga completamente in lunghezza, anzi spesso capita di avere i talloni sospesi nel vuoto in fondo al giaciglio. I posti a sedere in autobus sono più piccoli dei già minuscoli nostri sedili italici, ed il colmo del disagio si palesa quando si sale a bordo di un autobus a due piani che sono diventati piuttosto popolari: le necessità di creare due piani senza che il mezzo ne risenta in stabilità ha creato il mostro di un involucro di acciaio alto al massimo un metro e settanta, che ti lascia solo due alternative: o rassegnarti a tenere il collo piegato per tutto il tragitto, oppure sistemarti nel vano delle porte, dove il gradino di discesa mette a disposizione una ventina di centimetri aggiuntivi. In questo caso potrai tenere il collo retto, ma dovrai affrontare le masse proletarie cinesi che salgono e scendono portandosi appresso valigie, scatoloni, seghe circolari, polvere e dialetti delle più svariate provenienze. Oppure si può sempre salire al piano superiore, trovare un posto a sedersi e godere di chilometri e chilometri di macchine in coda e rami di alberi che sbattono sui vetri.

domenica 26 luglio 2009

Un tuffo in piscina

Si sa che l’abbronzatura in Cina non è un valore estetico come dalle nostre parti, almeno per quanto riguarda il mondo femminile: gli ombrelli parasole sono ancora un accessorio immancabile per moltissime ragazze, le signore in bicicletta o scooter portano spesso dei copribraccia che le fanno assomigliare a ragionieri di antiche banche in uscita libera, ed in televisione abbondano le pubblicità di creme sbiancanti, in un processo contrario a quello a cui siamo abituati noi. Nonostante questo, anche a Beijing sono nati i parchi acquatici, complice la presenza straniera, un accenno di inversione di tendenza dettata dai canoni di bellezza occidentali ma anche la possibilità per intere famiglie di portare i pargoli a mollo e per i giovinastri di metter in mostra i loro fisici scultorei ed i loro costumini vecchia scuola. Sono stato al parco Tuanjiehu per rinfrescarmi e potermi fare una nuotata.--br-- Mi sono rinfrescato, ma la nuotata è stata vanificata dalla densità di popolazione intenta a godersi l’acqua in una piscina ceto grande ma non abbastanza per accogliere tutto l’entusiasmo pechinese per un ambiente simil-marittimo lontano anni luce dalla quotidianità della capitale. Ho quindi provato di prendere il sole stendendo l’asciugamano sulla spiaggia ricreata a bordo piscina, non fosse che la suddetta spiaggia dev’essere stata pensata per accogliere alcune decine di persone, non una folla stile riviera romagnola. Ho si steso il mio telo incastrandolo stile tetris in mezzo agli altri in un mosaico che dall’alto doveva sembrare la riproduzione colorata di piccoli appezzamenti terrieri. Da li seduto mi sono goduto le immagini dei cinesi al bagno: un signore se ne stava fiero nel bagnasciuga, sigaretta in bocca, birra in una mano e spiedino di calamaro nell’altra, a controllare il figlioletto che schizzava di sabbia bagnata tutti quelli intorno; i ragazzi e le giovani coppie trovavano incredibilmente divertente seppellirsi nella sabbia fino a ricreare riproduzioni di sarcofagi egizi; i bambini si davano alla globale arte del castello di sabbia, ma non riuscendo ad ottenere i mirabolanti risultati frutto di anni di esperienze sui litorali che possiamo vantare dalle nostre parti. I signori con i mutandoni da mare all’antica tirati fino all’ombelico, le signore e le ragazze con costi due pezzi dai colori pastello decorati con svolazzi di stoffa ed immagini innocue, ma anche le signorine alla moda con bikini ed occhialoni da sole colorati, che non si staccano mai dal cellulare al quale ho visto è di moda ora appendere enormi peluche che sbilanciano continuamente il telefono durante le chiamate o la scrittura dei messaggi. Giovani bell’imbusti con tatuaggi, e signore in piscina armate di enormi ciambelle gonfiabili per affrontare abissi che non superano in nessun punto il metro e mezzo. Ed infine un signore di mezza età che, a metà tra l’eccitato e l’impaurito avanzava verso la zona della piscina dove si formavano le onde finte, della stessa grandezza all’incirca di quelle che può creare un uomo agitando le gambe in una vasca da bagno. Ma quel misto di felicità e timore reverenziale me lo hanno reso tenero e simpatico 

venerdì 24 luglio 2009

là dove osa(va)no gli artisti

 Dashanzi non è più come una volta. Il (o la?) 798, il primo villaggio degli artisti cinesi, l’ex area industriale colonizzata dai creativi con i loro atelier e le loro gallerie e fin da subito trasformatasi in luogo cult di Beijing per quell’atmosfera di avanguardia artistica post-socialismo ha negli anni cambiato faccia. Ne ho scritto diverse volte in passato: mi piaceva passeggiare in mezzo a capannoni e magazzini in disuso riempiti di opere d’arte, nonostante io e l’arte contemporanea viviamo su due mondi separati e difficilmente dialoghiamo. Ci misi piede in una giornata gelida d’inverno, e rifugiarsi nelle gallerie solo per scaldarsi era spesso vanificato dalla grandezza degli ambiente e dalla precarietà delle infrastrutture. Nel 2005 c’erano solo una bellissima libreria e un bar, o almeno io non vidi altro. Entrando si incrociavano operai che andavano o venivano dal lavoro, perché vi erano ancora fabbriche attive. Una volta fotografai decine di manifesti di educazione del lavoro e igienica in una lunga bacheca poco dopo l’ingresso principale, e sui muri si intravedevano gli slogan del socialismo. Gli anni sono passati, gli artisti sono aumentati e qualcuno ha fiutato il business. Hanno aperto decine di gallerie straniere, alcuni luoghi sono diventati bellissimi esempi di recupero dell’archeologia industriale, e l’atmosfera continuava ad essere quella alternativa ma anche chic. Era come entrare in un tempio dall’aspetto malmesso e polveroso e scoprire all’interno monaci ancora interessati alle preghiere piuttosto che alle macchine fotografiche...--br-- Ora invece mi ricorda di più la puzza di piscio dei cessi pubblici che si mischia ai profumi degli incensi da preghiera che si sollevano dal Tempio dei Lama: sono sorte decine di bar e ristoranti dai piatti occidentali e dai prezzi gonfiati, una miriade di negozi che vendono artigianato da due soldi, magliette di Che Guevara, Mao e Lei Feng, paccottiglia pseudo-artistica, ninnoli che al Silk market si trovano a prezzi dimezzati. Gira moltissima gente, ai bar sono seduti occidentali e cinesi belli e trendy che sorseggiano molto self-confident i loro cappuccini o i loro calici di vino, sentendosi finalmente parte del mondo artistico pechinese. Vorrei non dirlo ma anche la Nike ha aperto un suo spazio, in cui sono in mostra memorabilia sportivi e filmati storici; e devo ammettere che mi è piaciuta anche, ma non è il luogo. E nonostante tutto rimane un posto che cattura, non ha perso del tutto il suo fascino, racchiude in sé manifestazioni artistiche di tutte i tipi, dalla pittura alle installazioni alla fotografia, ed in alcune zone, le più fuori dalle strade principali, ha ancora quell’odore un po’ di casa occupata un po’ di laboratorio di menti elette. Dashanzi ha fatto scuola, sono nate altre aree analoghe nelle vicinanze, alcuni degli occupanti della prima ora si sono trasferiti; forse il 798 ha sacrificato sé stesso per le generazioni future, ha dato visibilità ad artisti sconosciuti vendendo parte del suo spirito iniziale. Forse ora guarda sereno i suoi discepoli.


Uscendo ho notato che nella bacheca su cui avevo fotografato i manifesti, quei manifesti non vi erano più, sostituiti da posters illustranti le varie esposizioni in corso nelle diverse gallerie. I casi sono due: o da quelle parti non vi è impiegato più nessun operaio, quindi non c’è più bisogno di educare sui rischi del lavoro, oppure si è deciso che è meglio educare il visitatore su quale esposizione potrà apprezzare varcando la soglia di Dashanziland.

giovedì 23 luglio 2009

prima della pioggia

 Il Ramble Cafè, dentro all’Università di lingue, ci sono stato la prima volta quattro anni fa, ed in un modo o nell’altro ogni tanto ci ritorno. Mentre tutta la città si è trasformata, qui alle tre del pomeriggio poco sembra essere cambiato dalla prima volta che ci misi piede. Dai suoi tavolini vedo al mia prima camera del dormitorio, quello almeno l’hanno ristrutturato: con le nuove finestre non ci si dovrà più difendere dagli spifferi con cui ho combattuto durante il mio primo inverno cinese. Chissà chi ci vive ora, chissà che fine ha fatto il mio accappatoio verde liso che vi lasciai, chissà dov’è finito Andy, il mio primo compagno di stanza. Mi guardo intorno, tutto sembra essersi fermato: questo porticato di plastica è ancora squallido uguale, guardando la sua trasparenza si intravedono le sabbie di molte tempeste depositate sui bordi, il giardinetto ha ancora la sua erba martoriata da tavoli e piedi di studenti che vengono a prendere qui il caffè, ed anche il barbiere che alcune volte mi ha torturato la chioma non è mutato. Una nostalgia umida sale lungo la sedia sgangherata dove sono seduto, mentre il cielo è stato improvvisamente scalato da nubi nere che promettono scarpe bagnate e schizzi di acqua lercia. In pochi minuti sembra essersi fatta notte, si sono scatenate migliaia di cicale che coprono il rimbalzare delle palle da basket nei playground. I negozi accendono le luci, è calato un buio irreale, poi un lampo ed il tuono annunciano che è arrivato il momento di risciacquare la città.

mercoledì 22 luglio 2009

l'afa dell'impero celeste

Ci sono giorni nell’estate di Beijing in cui sembra che il cuoco divino che risiede nel cielo e cucina per gli Otto Immortali e per le altre centinaia di variegate divinità si sia dimenticato la pentola sul fuoco. La pentola si è quindi fusa ed è colata senza pietà sulla città, è tracimata bollente e liquida sui viali, sui parchi e sui grattacieli ricoprendo tutto di grigio e facendo annegare i malcapitati sudditi del Celeste impero in un calore avvolgente ed umido, spargendo nebbia a macchie, rendendo inutili le vie respiratorie e facendo desiderare un paio di branchie.


Oggi mi sarei voluto godere almeno un pezzetto della tanto annunciata eclisse...--br-- peccato che il sole non esistesse se non come infido architetto di calore ed umidità nascosto dietro alle foschie. Mentre scrivo sembra inoltre che si prepari per piovere, e mi assale il pensiero di correre in cortile a rinfrescarmi; ma temo che l’acqua in discesa sia quella della suddetta pentola, quindi rinuncio.


Ieri sera sono tornato dopo quasi un anno a piazza Tian'anmen, volevo andare a vedere il maestoso Teatro nazionale, noto anche con il meno poetico appellativo di Uovo per la sua forma. Spettacolaree, non c’è che dire, ma quello che mi ha più colpito è stato l’hutong ancora esistente ad ovest del teatro, direttamente alle spalle della complesso della Sala dal popolo, la sede del governo cinese. Dietro alla sede del potere, dietro ad una delle più avveniristiche strutture della città si distendono placidi vicoli di case basse, cessi pubblici e piccole rivendite di alimentari e bevande. I vecchi sono seduti lungo il marciapiede, giocano a dama, si fanno vento, portano a spasso brutti cagnolini. Gli uomini con la canottiera tirata su sopra alla pancia, le donne in vestiti che sembrano pigiami, si fanno gli affari loro incuranti del potere e del futuro materializzatosi sotto forma di uovo di vetro. E’ in posti come questo che la città fonde le sue diverse vocazioni e confonde le sue facce, quando i fari di un’auto nera governativa illuminano la mano del vecchio seduto sullo sgabello che appoggia l’ultima pedina e vince la partita.


Nel frattempo fuori è cominciata una bufera: presto forse oltre alle branchie serviranno anche le pinne per nuotare, conoscendo la pregevolezza del sistema fognario della città. 

martedì 21 luglio 2009

Rapito dalla televisione

 La televisione cinese ha il potere di ipnotizzarmi. Sarà perché non sempre afferro quello che dicono, sarà perché ci sono decine di canali in cui fare zapping selvaggio, ma quando la accendo vengo rapito dallo strano mondo dell’etere cinese. Alcune cose mi stupiscono: non ci sono film occidentali, o almeno non li trovo, se non film che hanno minimo dieci anni, spassosamente tradotti nella lingua locale: quindi li evito come la peste, considerando anche che un dvd solitamente ha prezzi irrisori. Mi piacciono di più certi varietà a base di sfide canore, in cui si possono affrontare, senza apparente imbarazzo, un ufficiale dell’esercito che si scatena in divisa cantando un classico cinese interpretato in chiave rock, uno gruppo di performers su trampoli dediti a canzoni tradizionali ed un trio misterioso che riprende in chiave trip-hop una canzone tibetana. Purtroppo non ho avuto la forza di arrivare a vedere chi avesse passato il turno.--br-- Su un altro canale davano un film sulla guerra anti-giapponese degli anni ’30, apparentemente una produzione recente e ben curata, piena di patriottismo, di difesa della patria, coraggio ed abnegazione. Perfettamente inserita nel clima di questi mesi che precedono l’anniversario per i sessant’anni della Repubblica Popolare Cinese che cadrà il prossimo ottobre. Ma ciò che mi seduce di più, da perfetto figlio della società dei consumi trapiantato nel paradiso del capital-socialismo, sono gli spot. Invadenti, molesti, ripetitivi quasi che fossero un mantra commerciale recitato nel tempio profano del mio tubo catodico. Alcuni spot sono caratterizzati da un susseguirsi di immagini velocissimo, che arriva quasi a stordire in complicità con la voce narrante che non si ferma un secondo vomitando dati e pregi di computer di ultima generazione e cellulare che in apparenza potrebbero anche saper cucinare; si alternano presunti esperti di informatica a belle ragazze, in una miscela pericolosa di dati scientifici (o presunti tali) e ammiccamenti erotici (a dire il vero quasi nulli se paragonati all’eleganza delle nostre pubblicità). Si intravedo anche testimonial famosi in contesti inaspettati: Kaka per esempio pubblicizza delle caramelle per la gola il cui simbolo è un signore cinese senza troppi capelli. Mentre in un altro spot si vede un fucile da caccia grossa pronto a fare fuoco su un elefante che inspiegabilmente si trova su un campo da basket; a farci cosa? La risposta è facile, a farsi salvare ovviamente da Yao Ming, che si sta proprio allenando da quelle parti e accortosi del pericolo lascia in tutta fretta la palla per correre a stoppare, nel senso cestistico del termine, il proiettile oramai indirizzato verso l’occhio del placido pachiderma. Questa è una pubblicità progresso per la salvaguardia della natura, ed ovviamente l’eroe è Yao. Ma perché scegliere un elefante, che non è esattamente un animale cinese? Forse perché l’elefante ed il fucile da safari evocano immagini note a tutti di violenza e sfruttamento dell’avorio. Forse perché è giusto sensibilizzare i cittadini, ma è sempre meglio farlo facendo leva su situazioni che avvengono in altri paesi, così da non far sorgere l’idea che i cacciatori cinesi possano avere il coraggio di violare la legge sulla protezione animale. O forse semplicemente perché la stazza dell’elefante si addice a quella del cestista: sarebbe stato disdicevole mobilitare 2 metri e mezzo di uomo per salvare un pacioso panda o una smilza antilope tibetana.

lunedì 20 luglio 2009

un caffè da Confucio

 Sono stato al Confucius Cafè la prima volta tre anni fa. Si trova nello stesso hutong, uno dei tradizionali vicoli di Beijing, del tempio di Confucio e dell’antica Accademia nazionale. A quei tempi mi lo amai per la sua sistemazione romantica in un vicolo ben tenuto ma non ancora inflazionato, per il suo interno un po’ confusionario ma sincero, i davanzali ed i ripiani pieni di eterogenei soprammobili che andavano da scatole laccate ad un pupazzetto di Et, le sue mensole piene di riviste e libri malconci che davano l’idea del passare del tempo, il suo mobilio da antiquariato cinese, ed anche per il suo espresso decoroso. Un gatto bianco si aggirava tra le gambe dei tavoli e saliva sulle sedie incurante dei clienti, che non erano mai troppi; una volta il proprietario mi chiese quale fosse il miglior caffè italiano, e se secondo me sarebbe stata una buona mossa vendere anche i gelati in coppa. Un posto rilassante insomma. --br--


Ci sono tornato spesso nel corso degli anni, e l’ho visto cambiare, come sono cambiati i vicoli circostanti. E’ in corso un’opera di recupero che punta a far divenire la zona molto simile a Nanluoguxiang, uno degli hutong più noti a Beijing per la presenza di bar, locali, negozi alla moda. Ad onor del vero, secondo me uno degli esempi meglio riusciti del recupero in chiave turistica ma in maniera decorosa. Nei vicoli vicini al Tempio di Confucio sono cresciuti come funghi bar, caffetterie, piccoli locali in gran parte vuoti di clientela, librerie e piccoli negozi di semi-antiquariato. C’è anche un ostello delle gioventù. Orrore degli orrori, è in costruzione anche una sorta di centro ricreativo pieno di negozi, bar e sale da tè, proprio di fronte al muro rosso del Tempio dei Lama, ed il timore è che finisca come finisce di solito quando i cinesi si lanciano in questo genere di opere: costruiscono un edificio anonimo, lo rivestono di colonne rosse, finte pietre e tetti a pagoda, e ci ficcano dentro tutte le attività commerciali. La zona è turisticamente potentissima, quindi la sensazione che mi pervade è puro terrore; spero che il tempo mi smentisca.


Ed il Confucius Cafè invece? Ci sono tornato ieri, da lontano ho visto l’insegna Illy, ma la mio arrivo mi si è presentato diverso: sparito il set di soprammobili improbabili, sparito l’arredamento tradizionale, sparite riviste e libri, sparita l’atmosfera raccolta e le finestre che non riuscivano a trattenere gli spifferi invernali. In compenso ora ci sono poltroncine anonime, finestre nuove, pareti bianche. Orrore degli orrori, un televisore ultrapiatto che trasmetteva un programma di spezzoni musicali stranieri, l’universale simbolo di fallimento di un locale pubblico. Il caffè è rimasto lo stesso; mentre lo bevevo, alle mie spalle un cinese-americano con cappellino da baseball girato al contrario e micro computer sul tavolo non ha fatto altro che parlare al telefono di business, di strategia di attacco aziendale, di moderna struttura imprenditoriale. C’era ancora il gatto bianco, lui non sembrava preoccuparsi di niente, continuando a girovagare tra i tavoli e saltare sulle poltroncine, forse anzi trovandole più comode delle vecchia sedie a tre gambe stile dinastia Ming.


Mi ha quasi confortato la presenza dei bagni pubblici ed il loro odore pestilenziale. La loro presenza così fastidiosa ma essenziale mi ha tranquilizzato: la trasformazione non è ancora arrivata al suo punto estremo, c'è ancora speranza!

sabato 18 luglio 2009

Basket, tra sport ed identità

 Questo sabato si è presentato inaspettatamente azzurro e non mostruosamente caldo, quindi ne ho approfittato per dedicarmi alla nobile arte del basket. Tralascio qualsiasi commento riguardo alla qualità dei miei compagni di gioco, sembra che i cinesi continuino ad adorare qualche misteriosa divinità del catch and shoot, del prendi e tira, e fanno di questo la loro massima filosofia di gioco. Piuttosto, mentre tentavo di evitare il più possibile i contatti e di non collassate dopo pochi scatti, ho cercato negli occhi dei miei avversari qualche indizio dell’attuale dramma sportivo cinese, ossia la possibilità che l’eroe nazionale Yao Ming possa vedere la sua carriera prematuramente scomparsa a causa di un infortunio. --br-- Yao non è solo un altissimo cestista, tanto forte quanto fragile, ma un simbolo identitario della nuova Cina: è colui che ha sfondato nella Nba, il tedoforo di Beijing 2008, l’eroe buono modello di milioni di ragazzi, che vestono la divisa degli Houston Rockets e si pettinano come lui. In questi giorni erano qui in tour alcuni campioni dell’Nba tra cui Shaquille O’Neal, e per l’occasione la tv cinese ha riproposto un vecchio servizio del primo scontro fra i due giganti sul campo da basket, alternando spezzoni della partita a scene di spettatori di ogni tipo: trentenni alla moda in un bar a Shanghai, un ragazzo con il nonno in un appartamento anonimo a Beijing, cittadini di origine cinese nel palazzetto di Houston, in un crescendo di emozioni, tensione e commozione collettiva.


Il basket non è semplicemente uno sport: lo sa chi lo gioca, lo sanno i cinesi. Qui oltre ad essere una potentissima forza di mercato globalizzante, è anche un elemento importante nella nuova definizione di individualità dei giovani in questa Cina post-socialista alla continua ricerca di nuovi modelli educativi a cui ispirarsi. Quei milioni di giovani cinesi, che paradossalmente formano la più ampia fetta dei fan della Nba, potrebbero quindi rimanere orfani di un modello molto più incisivo di Lebron James o Kobe Bryant, solo per citare due dei più amati giocatori di basket in Cina. La pallacanestro rimane saldamente ancorata all’idea di nazione: non è un segreto che i cinesi soffrano moltissimo per il fatto che la loro nazionale non sia ancora nel novero delle big a livello mondiale, e vi sono parecchi dibattiti interni alla Cba, la lega cestistica cinese, riguardo all’opportunità/pericolo di divenire una lega sempre più simile, per organizzazione e filosofia, alla Nba. Per questo perdere Yao Ming sarebbe un trauma di molto superiore all’infortunio in diretta mondiale olimpica di Liu Xiang. Vorrebbe dire perdere una formidabile macchina da soldi, ma ancora più importante una delle icone più riconoscibile dell’ingresso della Cina nel mondo che conta. 

venerdì 17 luglio 2009

mentre attendo l'uomo del gas

 Da queste parti ogni straniero elegge categoria sociale o lavorativa come “la più odiata”. Qualcuno odia i camerieri maleducati o distratti, qualcuno i commessi invadenti nei centri commerciali; difficile non odiare quelli che ascoltano la musica dal cellulare in autobus senza cuffie, convinti che tutto il mondo circostante abbia espresso il desiderio di condividere le loro passioni sonore, quasi impossibile reprimere un moto di ira quando l’adolescente cinese in canottiera ti strofina l’ascella semiglabra addosso mentre è preso nel tentativo di mostrare i suoi rari muscoli alla ragazza che a lui si accompagna.


Io personalmente odio gli agenti immobiliari che mi hanno fatto perdere ore a visitare case che non corrispondevano minimamente ai requisiti da me esposti: per loro vicino alla metropolitana significava mezz’ora di passo rapido, ambiente tranquillo era un appartamento nel mezzo di un mercato rionale pieno di bucce di melone e marciapiedi appiccicosi, e condominio recente finiva sempre per essere un edificio risalente almeno a quando Mao sguazzava ancora nelle acque dello Yangze. Ma oggi ho sviluppato un particolare risentimento verso l’uomo che deve venire a ripararmi il gas, che dovrebbe essere qui da almeno due ore ma ancora non si è fatto vedere nonostante le ripetute chiamate; quindi assalito dai morsi della fame contemplo una giornata piovosa, ma per fortuna esiste un modo per tirarsi su il morale: basta comprare il China Daily ed andare diretti alla pagine delle notizie “curiose”. Scopro così che una signora di 35 anni della provincia dello Henan ha nascosto per 15 anni al marito ad ai due figli di non avere un orecchio, essendo nata con questo problema. Un orecchio! Non il mignolo del piede, non un dente, un orecchio. L’ha nascosto tenendo sempre i capelli a coprire la zona incriminata, e dormendo sempre sullo stesso lato, e non alzando mai la testa di fronte al marito, che era convinto di avere sposato una ragazza alquanto introversa. Ora grazie ad una operazione ha risolto il problema, ma afferma di non voler rivelare il segreto alla famiglia. Tutto questo mi porta a non poche riflessioni: forse il marito era un nano, quindi non poteva vedere, o forse quando voleva sussurrare parole dolci in un orecchio lo ha sempre fatto dalla parte giusta; forse era semplicemente un tonto, dal momento che in 15 anni non si è mai chiesto perchè la moglie non abbia mai cambiato taglio di capelli. Infine realizzo che i cinesi hanno la capacità di non muoversi nel sonno. Potrebbero nascere milioni di discussioni sui problematici rapporti tra i sessi, ma non è questo il luogo.


Rimango quindi in attesa del mio personale messia del gas in modo da poter risolvere anche l’ultimo problema della nuova casa. Forse. 

giovedì 16 luglio 2009

Il black cab

 Uno dei primi consigli che mi sono stati dati, la prima volta che sono venuto in Cina, era di stare attento ai tassisti abusivi che in aeroporto mi avrebbero aggredito per impacchettarmi sulla loro macchina e portarmi a destinazione solo dopo un lungo giro inutile per la città, ossia l’antico metodo di fregare il turista novello che non conosce le strade. Quattro anni fa si atterrava in un aeroporto decisamente modesto ed effettivamente si veniva circondati da tassisti, legali o meno, che non esitavano a strattonarti ed afferrarti la valigia per “convincerti” a salire sul loro mezzo. Ma il tempo è passato, ora nel nuovo Terminal 3 i tassisti ti attendono in ordinata fila, e con un po’ di fortuna una volta a bordo ti chiedono “Where are you going, sir?” memori delle regole di educazione imparate per le Olimpiadi.


Molto è cambiato, di sicuro, ma ancora si aggirano per le strade di Beijing i black cabs, i tassisti abusivi, magari semplici impiegati di giorno che la notte si mettono al volante delle loro Opel Ascona o delle loro berline Great Wall per arrotondare le entrate, oppure cittadini che hanno eletto a loro lavoro il portare in giro gli abitanti in maniera abusiva, facendosi trovare pronti nei luoghi strategici come gli ingressi delle Università, le uscite dei locali, i siti scelti per feste od i compound ad alta presenza di stranieri. Su questa categoria sono fiorite infinite leggende, c’era quello ha ucciso e fatto scomparire i corpi di due studentesse, quello che ha fatto una rissa con un passeggero inglese che lo accusava di volere troppi soldi rispetto al tragitto percorso. C’è quello che guida una macchina che sembra quella dei Ghostbusters, talmente scassata che il gas di scarico entra nell’abitacolo rendendo ogni viaggio una scommessa con l’intossicazione. C’è Wang Jianguo, meglio noto come “Il basetta”, che scarrozza nel suo pulmino gli studenti dell’Università di lingue. L’autista del black cab è una figura dal quale spesso si viene messi in guardia, con lui non esiste tassametro ma si contratta prima di partire quanto poi si dovrà pagare, magari lascia che a salire siano più di quattro persone, e di sicuro non ti porterà mai al Tempio del Cielo, ma piuttosto nel ventre di Beijing, a mangiare toufu puzzolente, bere birra da due soldi e sputare per terra mentre sudi nelle afose serate estive pechinesi.

mercoledì 15 luglio 2009

Una nuova finestra su Beijing

La Beijing che vedo quando mi affaccio alla finestra è diversa da quella che vedevo fino a pochi giorni fa. Ma non parlo della mutazione di una città, parlo del mio cambio di residenza, piuttosto piccolo a dire il vero, al massimo cento metri verso sud e quattro piani verso il basso, stesso complesso ma altro palazzo. Prima da mini balcone vedevo sotto di me un giardino e davanti a me un palazzo. Ora da un balcone altrettanto mini vedo davanti a me un palazzo analogo al precedente, ma sotto vedo il tetto si un supermercato. E’ piatto, circondato per tutta la lunghezza da un muro di almeno due metri, ed adibito a palestra all’aria aperta. Ma non una palestra cool stile Venice beach, tutto è cemento e tubature e grigio, ma vedo ragazzi e ragazze sollevare manubri, fare torsioni, qualche amante del basket si allena nel palleggio. Non azzarda il tiro, nel caso di un colpo maldestro potrebbe centrare nella strada sottostante la nonnina che si accinge a comprare una bacinella di plastica blu in sconto fuori dal supermercato: la scruta come se fosse un tesoro, controlla con cura la qualità, si consulta col nonnino in canottiera e ciabatte al suo fianco che la ascolta distratto tra una tirata e l’altra di una Honghe. Dalla parte opposta, all’interno del condominio, le mamme portano fuori i figli, fanno loro vento nell’aria immobile del tardo pomeriggio. Un bimbo prova di pescare pesci rossi nel laghetto, ti piace vincere facile vero?


La Beijing che ho sotto gli occhi è oramai stranamente familiare. Ma questo non è che uno scorcio, uno dei milioni che questa città ha da presentare, oltre l’esotico e le cartoline, oltre la Città Proibita e l’anatra alla pechinese.


Benvenuti sul black cab!