giovedì 25 febbraio 2010

La pena di morte in Corea del Sud

La pena di morte rimarrà in vigore in Corea del Sud, così ha decretato la Corte Costituzionale oggi 25 febbraio. A 14 anni dall'ultimo pronunciamento sulla costituzionalità della pena capitale, il giudizio non cambia, anche se si è ristretto il divario nella votazione (nel 1996 i voti erano stati 7 a favore e 2 contrari, oggi 5 a favore e 4 contrari). La motivazione data dai giudici della Corte Costituzionale è che tale provvedimento è ancora efficace come deterrente e come tutela per i cittadini.


L'ultima esecuzione avvenuta in Corea del Sud risale al 1997; l'anno successivo salì al potere Kim Dae-jung, che a sua volta era stato condannato alla pena capitale per motivi politici nel 1980: il futuro premio Nobel per la pace portò avanti una moratoria non ufficiale, tanto che nel 2007 Amnesty International ha inserito Seoul nella categoria "pena di morte virtualmente abolita": l'esecuzione era entrata in vigore nel 1948, ed in tutto sono state giustiziate 920 persone; 58 detenuti attendono ancora il proprio destino nei bracci della morte.


Ma tutto questo non è bastato a convincere tutti i giudici riguardo l'abolizione, e non è servita nemmeno la pressione dei gruppi religiosi (sia buddhisti che cristiani) e dei militanti per i dirittti civili: delusi si sono dichiarati i rappresentanti della Pan Religion Union for Abolition of the Death penalty. Soddisfatti invece i settori conservatori della società: Jeon Hee-kyung, membro della Citizens United for a Better Society, ha affermato che è ancora troppo presto per parlare di abolizione della pena capitale, tanto più che il tasso di crimini è in aumento. Altri ancora invece si interrogano sull'utilità di mantenere de facto la pena di morte anche se oramai non più applicata, con inevitabili ricadute in negativo sull'immagine internazionale del paese.


Un sondaggio della Commissione Nazionale per i diritti Umani del 2006 rivelò un popolazione di gran lunga favorevole alla pena capitale (circa il 69,5), e si ha ragione di pensare che la tendenza non sia cambiata in questi anni: il sentimento comune vorrebbe la giustizia sommaria in particolare per i casi di omicidio e di abuso su minori.


Fonte: Yonhap agency


(nell'immagine, manifestazione di attivisti di Amnesty International a Seoul nel 2007)
 



 

mercoledì 24 febbraio 2010

La salute dal cinese

Tra le notizie più lette oggi sulle pagine dell'agenzia cinese Xinhua vi è quella riguardo il lancio di una sorta di riforma sanitaria pilota in Cina. Sono state scelte strutture ospedaliere pubbliche di 16 città sparse per tutto il paese: l'obiettivo finale è la formazione di personale preparato e motivato, pronto a rendere un servizio efficace ed immediato. E soprattutto, a prezzi ragionevoli. Quello del costo è infatti il nocciolo della questione. In Cina ci sono oltre 14000 ospedali pubblici, e questa riforma, una volta estesa a tutta la nazione, avrà il nobile obiettivo di riportare la sanità pubblica a quello che, in una concezione che oramai sembra più da fiaba che da realtà, è il suo vero fine ultimo: servire la popolazione. Non fare soldi, come afferma Li Ling, professore del Centro di ricerca economica dell'Università di Beijing. Fino al 1985 gli ospedali in Cina erano completamente finanziati dal governo, ma in seguito alle riforme economiche iniziate alla fine degli anni '70 anche la sanità venne riformata in chiave di mercato: gli ospedali furono invitati a creare profitto. La riforma ebbe le due classiche conseguenze del passaggio dall'economia socialista a quella di emrcato: il livello del servizio si innalzò, ma insieme ad esso si innalzarono i costi. L'ospedale aveva cominciato a creare profitto facendo pagare caro le visite e le prescrizioni. In queste città pilota gli ospedali non potranno più creare profitto grazie alle prescrizioni ma riceveranno rinnovati finanziamenti, con la garanzia di provvedere ad un servizio puntuale ad un prezzo abbordabile per tutte le categorie di cittadini. Per la riforma vera e propria della sanità si dovrà ancora aspettare. Nel frattempo, sembra che il governo cinese stia cercando di riparare a tutti quei disastri che si scopre essere stati originati di pari passo con la ricchezza e la crescita economica sin dai primi anni '80. Dopo la gloria, è dunque giunto il momento di fare i conti con i sacrifici fatti ed imposti: si chiamino inquinamento, disparità sociale, migrazione interna o malasanità, poco cambia.


(nella foto, un ospedale della capitale Beijing)


giovedì 18 febbraio 2010

Ed infine, Obama vedrà il Dalai Lama

Alla fine si incontreranno. Obama ed il Dalai Lama oggi si vedranno, non nella Sala ovale della Casa bianca: e non è cosa da poco. Sembra una formalità, ma è un segno: ricevere uno dei principali nemici della Cina lasciando però aperta la porta del dialogo. Come a dire: io lo ricevo perchè non siete voi a dettarmi l'agenda, ed allo stesso momento vi faccio vedere che in parte rispetto il vostro malumore. Qualcuno dirà che si chiama tenere il piede in due staffe. Qualcuno altro la chiamerà realpolitik. Io lancio una provocazione: se Hu Jintao ricevesse Bin Laden con gli onori che si debbono ad un capo di stato, come reagirebbe l'Occidente, Usa in testa? Ecco, questo è quello che provano a Beijing: per il governo cinese il Dalai Lama è un separatista e terrorista, riceverlo significa dare supporto a quello che rappresenta. Con questo non voglio equiparare le due persone, non avrebbe senso storico e politico, ma semplicemente fare un esempio per provare di capire meglio perchè la Cina reagisce così. Qualcuno potrebbe obiettare che il Dalai Lama non è un terrorista, ma dall'altra parte qualcuno finirebbe per dire che Bin Laden lotta per la libertà. Ognuno sceglie il proprio campo, e la parte dove stare: ma nel farlo bisogna aver chiara la storia, le diverse interpretazioni (non solo una) e, ahimè, la realtà politica che stiamo vivendo. Ossia che lo scontro tra Usa e Cina è in corso, ma è economico prima che ideologico: tutto il resto viene di conseguenza.

domenica 14 febbraio 2010

Buon anno della Tigre

 Oggi è il capodanno cinese, anche se la definizione non è del tutto giusto, dal momento che la festività del capodanno lunare è celebrata un po' in tutta l'Asia orientale, dalla Mongolia alla Corea, dal Giappone al Vietnam al Bhutan. Forse i cinesi sono quelli che lo mostrano di più. Questo che inizia oggi è l'anno della Tigre, e per oggi lasciamo da parte le vicissitudini internazionali e le tensioni per gustarci un po' di superstizione tout-court: il segno della tigre porterebbe con sè mitici poteri eroici, e saranno loro a dare la spinta alla ripresa economica. Questo sarà dunque un anno per arricchirsi, ma non per sposarsi: si dice che nelle coppie che si sposano quest'anno il marito morirà presto. E guardarsi dall'avere bambini nell'anno della tigre: nascerebbero aggressivi ed "affamati", nel senso che in futuro faranno fatica a procurarsi il cibo. Ossia saranno poveri.


Infine, un consiglio che affonda nella leggenda: non tagliatevi i capelli durante le festività per il nuovo anno, altrimenti vostro zio materno morirà. Perchè? La leggenda racconta di un barbiere che amava molto il proprio zio, ma non poteva permettersi un bel regalo per il capodanno. Decise allora di regalargli un taglio di capelli che lo facesse apparire più giovane; allo zio il regalo piacque così tanto che desiderò avere lo stesso tutti gli anni. Venne anche per lo zio però il momento di congedarsi dalla vita, lasciando un tal vuoto nella vita del nipote che ogni anno, in occasione della festività, scoppiava in lacrime ripensando al caro estinto. Negli anni, il suo "pensare allo zio" (in cinese si jiu) venne interpretato come "morte dello zio", frase che si pronuncia allo stesso modo. Magie della lingua cinese e della superstizione.


Buon Chunjie a tutti!






 



 

mercoledì 10 febbraio 2010

Italia nei media cinesi

Nella homepage del quotidiano cinese China Daily oggi saltava all'occhio, schiacciata tra le notizie delle possibili sanzioni all'Iran e quelle riguardo alle missioni ufficiali cinesi del 2009, una notizia sull'Italia. Per l'esattezza, la dichiarazione del presidente del Consiglio Berlusconi secondo la quale si starebbe preparando a mandare, in occasione di san Valentino, emails di auguri "a tutte le sue ragazze". L'importante dichiarazione sarebbe stata fatta durante la presentazione di un libro (i cinesi non dicono quale, ma era "Donne di cuori" di Vespa).


Non è la prima volta che i media cinesi si interessano alla vita privata (ma neanche troppo) del nostro premier, questo concetto di Presidente donnaiolo sembra piacere a parte dei cittadini cinesi. Strano però dedicare una notizia sulla homepage a questo avvenimento per nulla significativo, tra l'altro nel mezzo del nuovo problema-Bertolaso ed a pochi giorni della dichiarazioni di fuoco dello stesso Berlusconi riguardo all'Iran e la seguente chiamata alle "armi" di Frattini. E' possibile che tali notizie ci fossero state, ed io me le sono perse. Ma è un dato di fatto che la avventure private di Silvio (nel post si riporta anche la pratica di divorzio nel quale è coinvolto) trovino stabile sponda nei media cinesi. Deformazione pruriginosa la loro, o conseguenze di un approccio discutibile?


 

martedì 9 febbraio 2010

Polveriera asiatica.

All'ultimo aggiornamento eravamo rimasti con una Corea del nord fattasi quasi improvvisamente, ma non del tutto inaspettatamente, disponibile al dialogo. Pyongyang ha rilasciato il predicatore Robert Park, ha accolto oggi gli inviati delle Nazioni Unite, ha riniziato a parlare con la Corea del Sud per riaprire i percorsi turistici comuni e la zona industriale congiunta di Kaesong, e sembra essere disposta a tornare al tavolo dei negoziati a 6. Motivo? Come già detto, sarebbe in corso, ripeto sarebbe perchè non ci sono notizie certe, una crisi economica grave, e quindi aleggia la possibilità di una nuova crisi alimentare che starebbe mettendo in ansia la popolazione e creando la scintilla per possibili proteste. Sono in corso cambi all'interno delle strutture di potere, nel Partito al potere e nell'esercito. E Pyongyang infine si dimostra disponibile al dialogo. Sembrerebbe la ripetizione di una scena già vista che segue da anni un copione fisso: minaccia nucleare, risposta della comunità internazionale. ricatto e conseguente richiesta di aiuti economici ed alimentari, concessione degli aiuti, rientro della minaccia. Ma non tutto è uguale: non solo la Corea del Sud aveva risposto alla minaccia non concedendo aiuti ma addirittura tagliando quei rapporti commerciali instauratisi negli ultimi anni; questa volta sembra essere Pyongyang a cercare il dialogo per prima. O si vuole mostrare con una faccia presentabile, come i "buoni" alla ricerca del compromesso, o la situazione interna è in crisi più di quanto sappiamo e dunque il governo vuole correre al riparo. Oppure, Kim Jong-il ha paura che il nuovo caos che sembra sul punto di scoppiare in Iran possa rubargli la scena. Tutto il mondo ha rivolto gli occhi verso Teheran, e si stanno definendo gli schieramenti: Usa da una parte, Iran dall'altra. Israele al fianco di Washington, come sarà alla fine l'Europa, pur se con mille distinguo dettati dalla paura di alcune nazioni di perdere i propri contratti commerciali in Iran. Russia non ancora schierata, ma che proverà di mediare; Cina non tanto alleata di Teheran ma piuttosto in opposizione agli Usa, sia per un discorso di egemonia che di economia. Corea del Sud e Giappone certamente con Obama, repubbliche ex-sovietiche difficili da definire: la ragnatela di oleodotti e gasdotti che partono, arrivano o finiscono in Iran spesso le interessa, e la vecchia chioccia Mosca è sempre alle spalle. Mancano all'appello l'India (alleata Usa) ed il Pakistan (alleato Cina, ma in parte fedele agli Usa). E la Corea del Nord? Pyongyang ha in Teheran un grosso partner commerciale: l'Iran compra enormi quantitativi di armi prodotte in Corea del nord, ma i rapporti si allargano anche a collaborazione scientifica, e, naturalmente nucleare. Ma le autorità nordcoreane non si sono schierate immediatamente con Teheran, ma anzi il contrario: nel momento in cui il mondo potrebbe infiammarsi di nuovo, loro si propongono di smorzare la tensione. Forse Kim Jong-il si sta sforzando di essere un po' più lungimirante? Se in futuro dovesse cadere l'Iran come lo conosciamo ora, Pyongyang ne pagherebbe di sicuro le conseguenze, quindi forse hanno ritenuto meglio riniziare a tessere i rapporti col mondo.

sabato 6 febbraio 2010

Cosa succede in Corea?








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Cosa succede nella penisola coreana? E' fresca di oggi la notizia dell'agenzia di stampa nordcoreana KCNA, ripresa dalla sudcoreana Yonhap, che il governo di Pyongyang si appresterebbe a liberare l'attivista statunitense Robert Park, arrestato per essere entrato illegalmente in Corea del Nord per portare un messaggio di pace ed amore (se ne era già parlato nel post del 4 gennaio). Non è stata comunicata la data esatta, ma l'agenzia KCNA ha affermato che l'attivista evangelico avrebbe dichiarato di essersi sbagliato riguardo al paese a causa della falsa propaganda. "Non avrei commesso questo crimine se avessi saputo che la Corea del Nord rispetta i diritti dei cittadini e garantisce la loro libertà, ed i cittadini godono di una vita sicura e felice". Queste sarebbero state le parole di Robert Park.


Ma le notizie più importanti vengono dalla struttura interna del Partito dei Lavoratori e dell'esercito nordcoreano, ossia le due colonne che reggono lo stato socialista. All'interno del Partito sarebbe in atto una purga, ed i primi a farne le spese sono stati il direttore delle finanze Park Nami-gi, e l'oramai ex direttore dell'ufficio "Room 39" Kim Tong-un (nel riquadro della foto) che si occupava di gestire i fondi segreti del Partito all'estero. Il primo paga per la fallita rivalutazione monetaria dell'anno scorso che scosso la già provata economia nordcoreana; il secondo invece sembra essere stato colpito da un divieto di volo da parte della UE, il che renderebbe difficile per lui amministrare i fondi segreti sparsi per il mondo.


 



 


Per quanto riguarda l'esercito, è in atto un ricambio generazionale: stanno passando in seconda fila tutti quegli ufficiali, settantenni ed ottantenni, legati alla generazione del primo presidente nordcoreano Kim Il-sung, sostituiti da elementi più giovani, provenienti per lo più dal Dipartimento politico generale, che certifica la fedeltà ideologica dei militari ai leader politici. Secondo l'osservatore sudcoreano Baek Seung-joo, costoro garantiranno la successione del potere all'erede designato, il figlio di Kim Jong-il, Kim Jong-un.


In ultimo, le dichiarazioni rese mercoledì scorso dal Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Robert Gates: secondo le sue parole, nel caso si verificasse un'emergenza in Corea del Nord, le forze terrestri statunitensi potrebbero non riuscire ad arrivare in tempo (a causa del già massiccio impegno sugli altri fronti caldi). Questo non significa che non arriverebbero, ma che nei primi momenti ci si dovrà "accontentare" della marina e dell'aviazione. Non esattamente una dichiarazione da poco: prendere in considerazione in maniera così netta la possibilità di un conflitto non è tranquillizzante, in particolare se si è consci della tensione attuale nella penisola coreana. Si potrebbe pensare che l'amministrazione Usa metta le mani avanti (quanto avanti non è dato saperlo) nel caso dovesse veramente succedere qualcosa e si trovasse impantanata in troppi fronti, oppure potrebbe suonare come un avvertimento a Pyongyang: non pensiate di poter agire a vostro piacimento solo perchè siamo già impegnati altrove.


Mettendo insieme tutti i pezzi, si ha una visione della situazione quantomeno complessa e, apparentemente, foriera di possibili cambiamenti, anche grossi: da mesi si rincorrono le voci di dissensi interni (ovviamente mai confermati da Pyongyang), ora arrivano anche le notizie di movimenti interni alle strutture governative e militari ed annunci preoccupanti di possibili situazioni di crisi. Ed infine la liberazione di Robert Park senza bisogno di un Clinton che lo vada a riprendere, come una sorta di estremo gesto distensivo. Nel tutto, Pyongyang continua a ribadire che la situazione è sotto controllo e nessun cambiamento epocale è in corso. Le stesse cose che si affermavano in Germania dell'Est nel 1989.


mercoledì 3 febbraio 2010

Obama, Cina e Tibet

Il 12 ottobre ho scritto un post su quello che sembrava il nuovo approccio di Obama nei confronti della Cina per quanto riguarda la questione Tibet. Allora in molti avevano storto il naso all'annuncio di Obama di non incontrare ufficialmente il Dalai Lama. Si era gridato allo scandalo ed al cinismo di quel presidente che si era fatto portatore di tante speranze. Ma in molti, tra cui il sottoscritto, avevano visto in questo non solo un gesto di opportunismo politico (un modo per non inimicarsi i cinesi poco prima di portargli visita a Beijing) ma piuttosto un indizio di una possibile nuova strategia, fatta non più di gesti tanto ecclatanti quanto spesso dannosi, ma piuttosto di un approccio più mirato per ottenere dei risultati veri. Giovedì scorso si sono riaperti i contatti tra le due parti, cinese e tibetana, con l'arrivo a Beijing di una delegazione composta dal braccio destro del Dalai Lama, Lodi Gyaltsen Gyari ed altri quattro ufficiali del governo in esilio tibetano. Non importa tanto di cosa si sia discusso (per inciso, Beijing sembra pronta a lanciare un nuovo piano di sviluppo per il Tibet: ancora sconvolta dalla ribellione in Xinjiang dell'anno scorso, potrebbe decidere per un approccio più soft nella questione tibetana) ma piuttosto come si è arrivati a questo incontro: senza alcuna apparente pressione internazionale, e senza nessuna campagna mediatica a fare da corollario. I tibetani non hanno rilasciato nessun comunicato ufficiale, non si è alzato nessun polverone per quello che era il primo incontro ufficiale tra le due controparti dopo la fine delle Olimpiadi del 2008. Il silenzio delle diplomazie in questi casi è per Beijing garanzia di affidabilità. Come ha fatto notare Francesco Sisci della Stampa, i rapporti tra Cina e Vaticano sono migliorati negli anni, pur rimanendo (o forse perchè rimasti) i contenuti politici nell'assoluto silezio stampa. Anche se si potrebbe obiettare che in questo modo si tengono nascosti eventuali segreti inconfessabili. Quindi stupisce che solo dopo pochi giorni si torni a parlare con forza dell'incontro tra Obama ed il Dalai Lama. Si potrebbe provare ad avanzare un'idea: l'incontro a Beijing, anche se non ufficialmente, doveva servire anche a chiarire la possibilità di questo incontro, che non è certo una decisione presa in qualche giorno. Forse quindi che quell'incontro sia andato così irrimediabilmente male da aver causato una presa di posizione forte da parte dell'amministrazione Usa? Fosse stato così, sembra sospetto che i cinesi non avessero fatto per primi un proclama, sarebbe stato facile per loro scrivere "Tibetani rifiutano la generosità cinese" all'indomani di un eventuale fallimento del dialogo. Forse dobbiamo inserire tutto in una lunga catena di eventi, che parte dalla questione Yemen, percorre le strade mediatiche del caso Google, attraversa il deserto persiano, prende il largo verso Taiwan per poi finire nel più antico dei dissapori geopolitici tra Occidente e Cina, ossia il Tibet? Una guerra a bassa intensità che le due potenze si sono dichiarate poco dopo i proclami di amicizia dell'incontro a Beijing dell'anno scorso? Ma allora forse quell'incontro non doveva cementare se non un'amicizia quanto meno un'intesa ed un reciproco riconoscimento, quanto piuttosto permettere ai due attori di studiarsi da vicino in vista dello scontro?


 

martedì 2 febbraio 2010

Iran ago della bilancia?

Cosa c'entra l'Iran nei litigi tra Usa e Cina? Si dice che il nodo strategico del 2010 sarà l'Iran. Difficile ora come ora smentire l'affermazione. La settimana scorsa gli Usa hanno di fatto dichiarato che procederanno sulla strada delle sanzioni contro la Repubblica islamica, ritenendo che la via diplomatica per fermare il suo sviluppo atomico sia oramai giunta al suo vicolo cieco. La stessa Hillary Clinton ha messo in guardia la Cina, affermando che il paese andrà incontro a grossa pressione internazionale se, in parole spicciole, non si accoderà al gruppo richiedente le sanzioni. Ed il contratto per vendere armi a Taiwan è sembrato proprio un avvertimento: se non ci aiutate ad affrontare questo nemico, noi riniziamo a vendere armi di fianco a casa vostra. Il governo cinese si è infuriato, ovviamente, ed ha minacciato sanzioni (situazione complessa: uno dei maggiori contractors in questa vendita di armi è la Boeing: Beijing difficilmente sanzionerà il suo fornitore numero uno di velivoli, tanto meno quando è la Boeing ad avere in mano la gestione e la manutenzione dei suoi prodotti. Sarebbe, probabilmente, una perdita economica troppo grossa). Con la minaccia delle sanzioni il governo cinese ha però inviato un messaggio agli Usa: non tanto che non devono vendere armi a Taiwan, quanto che non devono provare di inserirsi non tanto negli affari interni cinesi, quanto in quelli esteri. Più del rapporto con Taiwan al momento è importante quello con Teheran: l'Iran è il primo fornitore di petrolio e gas naturale per la Cina, che importa da esso il 14% del proprio fabbisogno. Nel 2009 ha aumentato dell'88% le proprie esportazioni verso la Cina rispetto all'anno precedente, che si appresta a divenire il suo più grosso partner commerciale, a scapito del Giappone. Tutte le società energetiche cinesi hanno rapporti commerciali con l'Iran, ma non è solo l'energia ad unire i due paesi: la loro è un'alleanza cementificata anche dalle armi, i cui primi scambi commerciali riguardano i tempi della guerra tra Iran ed Iraq e sono continuati fiorenti negli anni, in particolare dopo l'embargo lanciato da Clinton contro l'Iran nel 1995. In ultimo, l'Iran è fondamentale per la strategia del filo di perle cinese con cui si garantisce le rotte commerciali dall'oceano Pacifico al Mediterraneo, nonchè il passaggio strategico del Golfo Persico. Quindi, un Iran nucleare è pericoloso, ma un Iran amico della Cina lo è ancora di più. Cosa dunque è da temere? Un governo clericale e dittatoriale, o un governo, qualunque sia, che vende risorse ai nostri avversari?


lunedì 1 febbraio 2010

Armi Usa a Taiwan: la reazione cinese

Venerdì scorso l'amministrazione Obama ha presentato al Congresso il piano per un accordo commerciale militare con Taiwan per oltre 6.4 miliardi di dollari: gli Usa sarebbero pronti a vendere, tra gli altri, elicotteri Black Hawk, sistemi anti-missile e 2 navi cacciamine, ma non i jet F-16, come si era vociferato in precedenza. Il governo cinese si è scatenato come non succedeva da tempo: a breve giro sono interventui il Ministero della Difesa (annunciando che i rapporti militari tra le due nazioni saranno sospesi se Obama non farà marcia indietro) ed il Ministero degli Esteri (che ha minacciato di imporre sanzioni sulle compagnie private che sarebbero protagoniste di questo possibile accordo). Sempre dal Ministero degli Esteri è arrivata la minaccia di interrompere la collaborazione della Cina su importanti questioni internazionali, con 3 nomi su tutti gli altri: Iran, Afghanistan e Corea del Nord. Insomma la tensione continua a salire: non bastava il caso Google, non bastava nemmeno la nuova polemica su un possibile incontro tra Obama ed il Dalai Lama. Ecco pronta ad esplodere un nuovo conflitto diplomatico tra i due oramai ex nuovi amici. Ci si chiede perchè l'amministrazione Obama abbia deciso di rischiare grosso, ben consapevole della sensibilità riguardo alla questione taiwanese: in un momento in cui il governo di quel paese che Beijing considera una sua provincia ancora da riconquistare sembra essere in sintonia con la Cina continentale, questo gesto serve a scardinare le carte in tavola? Serve a ribadire che lo scontro per l'egemonia in Asia orientale è ancora ben aperto? O serve a punzecchiare la Cina dopo l'invito di Hillary Clinton (rifiutato) al governo cinese a riconsiderare la propria opposizione alle sanzioni nei confronti dell'Iran?