martedì 1 novembre 2011

Un racconto per l' 1 novembre

Oggi posto un racconto scritto tempo fa, che non ha nulla a che vedere con l'Asia, ma abbastanza con l'Emilia, e soprattutto con la data di oggi.

Buona lettura



Era freddo tra quelle pareti metalliche, fredde e lisce, pulite e sterili, che la costringevano a stare sdraiata sulla schiena, con le braccia distese lungo i fianchi. Non che ci fosse tutta questa necessità di muoversi, oramai, ma almeno potersi mettere su di un fianco, così per variare la monotonia della stessa posizione, e magari con essa mutare lo scorrere di minuti tutti uguali, giorni non diversi l’uno dall’altro. Nell’attesa che qualcuno venisse a prenderla per riportarla a casa, lontano, lontano dalle nebbie sempre più insistenti dell’autunno, lontano da questo paese ancora straniero nonostante gli anni trascorsi. Lontano, finalmente. Finalmente fuori da quella celletta dell’obitorio.









E’ triste essere morti, pensava Irina dentro alla cella frigorifera personale; ancora più triste esserlo il 2 novembre e non avere ancora una tomba, nel giorno in cui i parenti pietosi vanno a visitare i cari defunti in piccoli cimiteri di campagna, che per l'occasione si animano dimenticando l’usuale sonnolenza. Le signore più anziane osservano foto in bianco e nero di fratelli e nonni di un’altra epoca, immagini ufficiali dove non mancavano mai baffi ben curati e cappelli profumanti di nuovo tirati fuori da scatole di cartone; nell’epoca pre-pellicola e pre-digitale la fotografia era cosa seria, niente autoscatti usa e getta pieni di lingue e corna e smorfie, ma sguardi seri e posture erette, mani sulle ginocchia ed indosso il vestito buono, il vestito della domenica, per finire in una piccola immagine bianca e nera dai contorni già sfuocati senza bisogno di foto-ritocco; con tutta l’ironia del caso in cui quella che forse era l’unica foto di un’esistenza sarebbe diventata la propria effige una volta morti. Una volta varcato il cancello del camposanto, quell’unica volta che lo fai non da spettatore ma da protagonista. I nonni che ricordano gli amici, quelli dall’altra parte della lapide, con aneddoti che dissolvono nella leggenda popolare, storie polverose da cui sbucano personaggi dai nomi dimenticati, autori di mirabili imprese al limite della realtà che oramai nessuno potrà più confermare o smentire; troppi gli anni passati e gli ultimi saluti scambiati, la memoria comincia ad essere avvolta da un nebbia simile a quelle che lambisce in autunno i piccoli cimiteri: la prima confonde e sfuma i ricordi, la seconda ammorbidisce le mura sbiadite nell’ora tarda del pomeriggio, quando i cancelli cominciano a chiudersi, il paesaggio scompare in un orizzonte rosa tenue ed i vecchi si allontanano raccontandosi l’un l’altro gli ultimi acciacchi fisici. Scappano fuori dai cancelli anche quei bambini portati quasi a forza a vedere quelle pietre bianche; non contemplano ancora l’arcano mistero della morte e della sepoltura: il cimitero per loro non è che un campo giochi da esplorare, pieno di bizzarre foto popolate da volti buffi di sconosciuti dalle orecchie a sventola, oppure da alteri padri di famiglia di un’altra epoca che promettevano etica rurale e punizioni esemplari. Impossibile resistere alla tentazione di salire sulle scale di metallo arrugginito trasportabili, come se si stesse assediando un castello immaginario; svoltare l’angolo di un’ala ancora in costruzione immaginando l’esplorazione di un mondo segreto e scoprire lunghe pareti ancora vuote, che ti salutano con un inesorabile arrivederci. Chiudono al tramonto quei piccoli cimiteri delle frazioni paesane, smarriti appena fuori da borghi per metà fermi nel tempo e per metà sfigurati da nuovi condomini anonimi, tra campi marrone scuro che contrastano con i resti di paglia gialli, e filari di frutteti ormai spogli, e litanie di pioppi che sembrano infinite quando vengono inghiottite dalla foschia; cimiteri dove le facce che si incontrano sono sempre le stesse, solo ogni anno più vecchie e appoggiate su schiene più curve, con gli occhi che cercano sulle pareti immagini di amici e conoscenti sempre più numerosi. Pareti su cui si ricostruiscono alberi genealogici che nel borgo vicino hanno le radici, ma i cui rami si sono sparsi altrove, un altrove che può essere la frazione vicina o una nazione lontana: capita a volte di incontrare foto solo appoggiate, non inserite nella lapide, a testimonianza del ricordo locale di una perdita lontana, di un corpo che ha trovato riposo lontano ma la cui memoria si vuole vicina.





Chissà se nel piccolo cimitero di Kolpny era almeno comparsa una fotografia, si chiedeva Irina mentre faticava a grattarsi il piede disperso dall’altra parte del loculo, strisciando il dorso freddo sul freddo metallo. Dal momento che il suo corpo era parcheggiato là, sperava che almeno qualcuno avesse avuto la buona intuizione di rimediare con un’immagine; sperava che nell’attesa dell’eventuale spostamento, un'anima pia avesse appoggiato lieve una sua immagine di fianco a quelle dei genitori morti anni prima. Potendo scegliere, avrebbe optato per una di quelle del suo matrimonio, anche se oramai molto lontano nel tempo: era giovane, aveva una casa piccola ma calda ed il suo seno stava su senza bisogno di aiuto esterno. Più facile però che la scelta fosse caduta su una delle poche stampe che aveva inviato a casa dall’Italia durante gli anni di lavoro. Quella che le piaceva di più la raffigurava su di una panchina in un piccolo parco, di fianco ad un sobrio cippo che ricordava i caduti della prima guerra mondiale. L’aveva scattata un pomeriggio di fine estate: aveva portato la signora a spasso, l’aveva ascoltata a lungo raccontare storie della sua giovinezza, l’aveva sentita preoccuparsi per l’arrivo dell’autunno, e sapeva che poi si sarebbe lamentata anche dell’arrivo dell’inverno e dell’estate, ogni volta con un motivo diverso. Avevano incontrato una collega con la propria anziana d’ordinanza, si erano scattate un po’ di foto con un'antiquata compatta a pellicola. Le piaceva quella foto in cui lei accennava appena un sorriso, dove il vento di fine estate prometteva già foglie color rame, ma non ancora nebbia.



Questo ragionare la portava a chiedersi seriamente se la notizia del suo trapasso fosse arrivata a Kolpny, o se nel paese lontano tutti la credessero ancora viva ed intenta a guadagnare una vita decente a famigliari ed occasionali amici. Chissà se il marito se ne stava ancora in attesa di quel versamento mensile da convertire immediatamente in valuta alcolica locale, sollevando con gli occhi lucidi bicchieri di acquavite velenosa in onore della coraggiosa moglie; salvo poi barcollare nel letto di una prostituta qualsiasi a consumare un rapporto rabbioso, maledicendo il governo e ringraziando il cielo che la moglie non avesse fatto una fine poco onorevole, a vendersi per pochi spiccioli a squallidi contadini come quella donna che aveva appena schiacciato sotto di sé. Almeno Irina era certa che la figlia grazie a quelle rimesse aveva completato la scuola superiore, aveva imparato a fare di conto ed i rudimenti dell’economia; si era comprata un vestito nuovo con il quale entrare timida agli uffici di collocamento, per inseguire l’ufficio, le piante e le cartelle promesse ora al posto di orgogliosi contadini e fieri operai, caduti in disgrazia dopo la fine del socialismo. La sentiva quasi tutti i giorni la piccola Liuba, che tanto piccola non era più, le raccontava di come le giornate trascorressero monotone ma tranquille, ascoltava gli amori ed i sogni della figlia immaginando come dovevano essere i suoi capelli e come le potesse cadere quel nuovo vestito. Le chiedeva del fratello Andrei, se stesse attento alla guida di quella macchina che si era comprato anche grazie ai soldi inviati dalla mamma lontana; lei non aveva ancora capito perché una macchina fosse così importante, ma per lui sembrava essere tutto: lui non stava più a Kolpny, si era trasferito in una città vicina per lavorare come operaio, non la chiamava quasi mai, ma ogni tanto le mandava un messaggio. Stava bene, ma Irina aveva paura che un giorno con quella macchina ci si sarebbe fatto male. Irina aveva tanto tempo durante le sue giornate per fantasticare su come poteva stare la sua famiglia, si figurava le scene della vita quotidiana, malediceva il fatto di non poter più essere presente, si consolava pensando all’aiuto che mandava ogni mese. Ma a volte non bastava. Nella sua cameretta ogni sera, davanti a programmi televisivi che raramente catturavano il suo interesse, immaginava i volti ed i luoghi, si rattristava e spesso versava una lacrima, per poi addormentarsi pensando a chiesette di campagna con i tetti di legno e galline giocattolo fatte di paglia e pezzetti di legno.



Non erano veloci le ore là dentro, stretta tra pareti anonime e interrogativi insoluti; poteva ingannare il tempo pensando a facili battute, a come sarebbe stato meglio finire là dentro in agosto e godersi la buona temperatura alla faccia di quelli rimasti fuori a sudare; oppure poteva riflettere amaramente su come alla fine ci fosse finita veramente al fresco, dopo averla fatta franca per mesi senza il permesso di soggiorno. E c’era finita proprio ora che si era da poco messa in regola. Poteva almeno consolarsi di non essere la sola a trascorrere quella ricorrenza al fresco: sentiva i dottori parlare, sentiva le loro parole attutite dal metallo ma riusciva a distinguere i discorsi, sentiva gli sportelli aprirsi e chiudersi, le rotelle delle lettighe arrivare ad andarsene, le sembrava quasi di vedere il vapore uscire dalle cellette quando venivano aperte e precipitare fino al pavimento bianco. Tre giorni prima avevano portato un nonno, morto da poco ma in stato di indigenza, quindi in attesa che si decidesse cosa fare. Aveva passato gli ultimi anni in un ricovero finanziato miseramente da parenti lontani o allontanatisi; ogni Natale un infermiere gli metteva in testa un cappello rosso, a Carnevale un’infermiera gli infilava in bocca una lingua di Menelik, come se il catetere infilato nel pene non fosse un’intrusione già sufficientemente umiliante. Finire nella celletta non gli era poi dispiaciuto troppo. Il giorno prima invece era arrivato un ragazzo albanese, morto la sera precedente in un incidente d’auto: i barellieri si raccontavano la dinamica dell’incidente, pareva che l’urto contro un muro di una villa fosse stato così devastante da lanciare il corpo dello sventurato oltre il muro stesso, per abbandonarlo poi scomposto sui rami di un albero. Un barelliere era dispiaciuto, l’altro non perdeva occasione di rimarcare che, se fosse stato per lui, l’avrebbe lasciato direttamente sui rami a divenire cibo per corvi; tanto più che nell’abitacolo della macchina andata a fuoco era stata ritrovata una pistola; il che automaticamente aveva fatto del ragazzo un criminale. Irina si chiedeva se anche i suoi vicini di igloo metallico stessero là a riflettere come faceva lei, alla ricerca di un modo per passare le lunghe ore in quella specie di prigione. Sentiva che anche loro non erano ancora in pace, ma non poteva interagire. Allora cominciava a far elenchi mentali per ingannare quel tempo che oramai sembrava aver perso di valore, un tempo di cui identificava l’inizio ma non vedeva come interpretarvi una fine.



A volte le sembrava di essere sul punto di assopirsi, intenta a non-vivere quel momento sospeso che anticipa il sonno, quel dormiveglia meditabondo in cui cogli il ticchettio del rubinetto che perde ed i bisbigli dei fantasmi. Era in quei momenti che le tornavano alla mente immagini di tanto tempo prima: istantanee di quel giorno in cui un pulmino Westfalia marrone scolorito l’aveva abbandonata nella piazzetta di una qualsiasi periferia di una qualsiasi città sulla via Emilia. Aveva scaricato il suo essenziale bagaglio, tra cocci di bottiglia e preservativi con il loro contenuto di amore rinsecchito. Per tutto il viaggio aveva fantasticato sul posto dove sarebbe finita, non il fantasticare dell’adolescente che prende un treno diretto alla scoperta dell'Europa, ma quello di chi compie a sua volta un viaggio attraverso il vecchio continente per lavorare come badante, forte di un diploma di infermiera e di una esperienza oramai riconosciuta più all’estero che in casa propria. Oppure forte solo di volontà e pazienza, fondamentali per passare le giornate a pulire culi, bave e corpi provati dall’età. Donne talora odiate come intruse in casa altrui, forse semplicemente perché prova tangibile dell’inesorabile avvicinamento della fine della corsa; talvolta invece chiamate in breve tempo a divenire componenti della famiglia, ultime orecchie affettuose per nonnine piegate da anni di economia domestica di ferro e svezzamenti di figli e nipoti. Irina si chiedeva anche questo mentre arrivava con un minivan nel centro di Casumaro, frazione di periferia di uno dei tanti comuni della pianura padana. Si ripeteva in testa quel nome, non avendo idea di che posto la aspettasse. A ripensarci, si era trovata bene a Casumaro, un paese piccolo ma almeno tranquillo. Aveva conosciuto altre badanti con le quali sedersi su di una panchina la domenica pomeriggio, impegnate solo a farsi scorrere addosso qualche ora libera senza preoccupazioni, bevendo tè tirato fuori da un thermos a motivi floreali; ascoltando a vicenda le piccole storie quotidiane, i problemi dei propri vecchi, i problemi delle proprie patrie lontane, tutte diverse ma tutte sistemate sul lungo orizzonte orientale d'Europa. Casumaro, un caso amaro, almeno così diceva la vecchia Dora, quando voleva spiegare l’origine del nome: il caso a cui si riferiva era la morte del nipote di una contessa, o una duchessa a seconda del giorno in cui il fatto veniva raccontato, annegato in un fiume che a detta sua una volta scorreva proprio in mezzo al paese. Un caso amaro dunque per la contessa, o duchessa che fosse, reso immortale nel nome di un ammasso di casette e casali, che sembravano essere stati lanciati a casaccio nella campagna. Irina era riuscita dopo tanti sforzi a capire cosa significasse il nome; non che le interessasse veramente, ma lo sentiva ripetere talmente spesso che alla fine aveva colto il senso, aiutata dalla sempre maggior comprensione dell’italiano ma soprattutto da amiche più esperte, a volte con figli che studiavano nelle scuole dei paesi vicini. Il suo invece sembrava essere un caso se non completamente felice perlomeno senza problemi, dopo un ambientamento tutto sommato facile in quella casa piccola ma decorosa, con la sua cameretta stretta tra la camera dei coniugi, piena di foto scolorite di figli e nipoti, ed un salottino con tavolo in formica e mobili fermatisi a contemplare lo scorrere del tempo negli anni ’70 e da allora mai più interessatisi al cambio delle mode; a far loro compagnia un piccolo albero di Natale, posizionato sul davanzale della finestra durante le festività oppure in uno scatolone di fianco ad un piccolo divano, ed una riproduzione della Madonna di Lourdes in plastica piena di acqua benedetta che faceva bella mostra di sé su di una mensola. Vicino alla Madonna, nel caso avesse voluto svagarsi sfidando Gesù che se ne stava sopra alla porta di ingresso, un mazzo di carte ben conservato nonostante le mille mani che vi erano passate sopra; ed infine una pila impressionante di scatole di medicine corredate da fogli bianchi su cui erano scritti in caratteri cubitali i dosaggi e la frequenza d’uso. Nel piccolo ingresso un mobile scuro e lucido sul quale invecchiavano un telefono, una piccola bicicletta di ferro azzurra ricordo della prima comunione di un nipote, ed una statuetta di un cane di quelle che cambiano colore a secondo del tempo. Si ricordava ancora la prima cosa che aveva pensato quando era entrata in quella casa: pochi soprammobili, tanto meglio. Spolverare sarebbe stato meno complesso.



Aveva trascorso due anni in Italia, quando una mattina di novembre, una di quelle mattina in cui il sole autunnale decide di cedere il passo alle nuvole trasformando il paesaggio in una fredda lastra grigia, liscia e luminosa, Casumaro presentò il proprio conto; o almeno il suo nome presentò il conto. Tutto iniziò con un vago dolore che divenne di giorno in giorno più insistente, fino ad una diagnosi che non lasciava via di scampo: tumore in stato oramai avanzato, ben poco da pregare o da imprecare. Poco da chiedere o recriminare. Quasi nulla in cui sperare, nemmeno in un ritorno a casa: troppo lontana, troppo costoso, troppo precaria; dolorosa fu l’ammissione brutale di una tragedia nella tragedia, come se qualcuno le stesse chiedendo un conto troppo salato per un banchetto del quale aveva avuto solo le briciole ed i fondi di bottiglia. Arrivarono lunghi pomeriggi di nebbie silenziosi, turbati solo dallo sfregare di grani di rosari tra un pollice ed un indice sempre più deboli, prima in quella casa che da luogo di salvezza si trasformava lentamente in dolorosa prigione, poi all’ospedale, cosciente di non essere destinata ad occupare quel letto a lungo. Al capezzale alcune amiche, frasi di circostanza, lacrime dignitose, le più tenere quelle della sua padrona di casa, che davanti alla sua malattia si era fatta ancora più piccola e indifesa, pagando nel fisico una silenziosa tristezza interiore. Ogni giorno che passava le sembrava di staccarsi sempre di più da questo mondo, percepiva la preoccupazione nelle voci che la circondavano, non tanto per la sua situazione clinica che non ammetteva variazioni, ma per il dopo. Era venuta l’ora di discutere del suo ritorno in patria, che non sarebbe avvenuto tra feste ed abbracci; anzi sembrava che non fosse nemmeno sicuro questo rientro: costi alti, procedure burocratiche, strani cavilli della legge avevano gettato tutti in difficoltà. Lei stessa aveva contattato la famiglia, ma anche per loro sembrava essere una situazione complicata, e dentro di lei cominciava a farsi strada una sensazione fredda e spiacevole. Come se qualcuno se le avesse rotto in testa una bottiglia e le avesse poi chiesto di rimborsare i cocci. Mano a mano che passavano i giorni vedeva le persone intorno a lei sempre meno chiaramente, come se quella nebbia nei campi si stessa infilando lentamente nella sua camera bianca per avvolgere i presenti. Non sentiva più i loro discorsi in maniera distinta, coglieva solo la preoccupazione. Perché queste persone si preoccupavano per il dopo, si chiedeva Irina tra lenzuola bianche e strumenti medici. Il dopo era affare di Dio, non loro, non riusciva a capacitarsi del perché le stessero organizzando il viaggio nell’aldilà; sentiva parlare di spostamenti ed anche di aerei, ma nella sua mente oramai confusa da farmaci e presagi mischiava immagini di angeli, minivan, trattori ed aerei neri. Aveva infine capito che l’unica via per tornare a casa sarebbe stata in forma di cenere: la cremazione era l’atto necessario per guadagnarsi un biglietto di ritorno, ma per farsi ardere serviva una dichiarazione compilata in vita, e questo l'avrebbero scoperto solo dopo la sua morte. Vedeva visi cari, infiniti paesaggi piatti interrotti solo da cipressi, casolari e ceri rossi da cimitero. Poi un giorno smise di sentire e di vedere, e pensò che fosse arrivata la fine. L’ultima visione fuori dalla finestra furono nuvole grigie che scappavano veloci dopo aver scaricato pioggia fredda su campi, argini e pioppeti. L’ultima immagine, incredibilmente nitida, quella di un uomo che teneva al guinzaglio un orso.



Quando era entrata nella casa dei suoi vecchietti, uno degli oggetti che più avevano catturato la sua attenzione era stato un libro di fotografie in bianco e nero, una di quelle edizioni locali celebrative di un qualche personaggio famoso; Irina l’aveva preso in mano la prima volta dopo qualche settimana che abitava là, per ammazzare le ore di un primo pomeriggio autunnale, mentre i vecchi erano intenti a sognare la propria giovinezza e le foglie a sforzarsi di rimanere appese ancora un giorno al ramo, mentre il loro colore tradiva spietato l’imminente distacco e conseguente caduta. Nel piccolo salotto tutto taceva tranne il ticchettio di un vecchio orologio da parete, regalo di una pensione turistica della riviera: sul quadrante erano disegnati ombrelloni e sedie da spiaggia, la Pensione Azzurra invitava a tornare l’anno prossimo; cimelio sbiadito di un’epoca di vacanze e costumi e amori estivi, scandiva secondi lenti e nebbiosi ed invitava al riposo. Irina aveva guardato quelle foto delle prime decadi del secolo passato, le ricordavano il suo paese nella campagna russa, si stupiva di come potessero essere così simili. C’erano foto con piccoli bambini in divisa e bambine con grembiulini intenti a fare piccoli lavori agricoli, balilla sembrava essere il loro nome; il nome non le diceva niente, ma la scena le ricordava le foto celebrative dei piccoli pionieri sovietici, tutti eleganti con il fazzoletto rosso al collo, piccoli uomini pronti a cogliere la chiamata del proprio paese. La vecchia Casumaro di un secolo prima era poco più di una via polverosa circondata da edifici robusti, la chiesa, la salumeria, l’osteria. Le attività sportive, gli incontri di boxe in un ring improvvisato nel giardino di fianco al piccolo teatro, la gente accalcata a godere dei due ragazzotti in pantaloncini e guantoni intenti a gonfiarsi per pochi spiccioli. Gli uomini con il vestito buono, le donne di campagna a casa a tirare la sfoglia, le ragazze con i primi veli di trucco a guardare chi tra i coetanei avesse la bicicletta più bella, o addirittura una moto. Una foto in particolare aveva catturato la sua attenzione: una foto con un orso tenuto al guinzaglio da una donna agghindata con vestiti diversi dalle altre signore: un foulard portato come un copricapo, grandi anelli di metalli appesi ai lobi ed in mano un tamburello con cui battere il tempo per far ballare l’animale; le venne subito in mente quando, decine di anni prima, era arrivata nella piazza del suo villaggio una malandata compagnia circense errante, nel senso che vagava da città a città ma anche nel senso che sbagliava. Sbagliava a voler portare avanti quell’attività che oramai apparteneva al passato. Un signore dai baffi che sembravano un cespuglio e dal torace spazioso teneva per una corda un orso che doveva aver visto giorni migliori: spelacchiato sul dorso e su parte delle gambe posteriori, sembrava avere anche dei problemi agli occhi, arrossati e non esattamente vispi. La precisa rappresentazione zoomorfa della compagnia circense. Nonostante l’evidente indigenza, tra il padrone e l’animale c’era affetto, reciproca stima ed una sorta di rassegnata complicità, concordi nell’accettare un destino ben diverso da quello che si erano immaginati tanti anni prima. Sia nella foto che nei suoi ricordi c’erano quell’animale simbolo di selvaggio e pericolo, e bambini e bambine che si accalcavano tutt’intorno per vedere la strana bestia; le bimbe che si tenevano a distanza e si proteggevano dietro le gambe dei papà, i bimbi intenti a mostrare il loro coraggio nel fare a gara a chi si avvicinava di più, salvo poi scappare inciampando ed impolverandosi ogni volta che l’orso si girava verso di loro. Guardare quelle vecchie foto la metteva di buon umore, entrare a conoscenza del passato di quel paese la faceva sentire meno straniera e meno di passaggio, contribuiva in maniera misteriosa a riempire in parte quella non-vita sacrificata per qualcuno distante migliaia di chilometri; faceva riaffiorare ricordi della sua giovinezza non tanto per una precisa somiglianza tra le immagini ma piuttosto per induzione mentale: rimirare il passato del nuovo paese la riportava al suo di passato in altra epoca e altro luogo, in immagini oramai sfuocate dove tutto andava bene, la famiglia si riuniva a tavola ed i pomeriggi domenicali si passavano seduti alla piccola bettola locale su sedie tutte di colori e fogge diverse a svuotare bicchieri di vodka non appena venivano riempiti.



Poi un giorno successe qualcosa. Aveva ormai imparato a sopportare il prurito ai piedi, ed aveva accettato il freddo come clima a cui era destinata, quando sentì un movimento diverso dal solito: sentì che qualcuno la stava muovendo. Udiva voci di medici che aveva imparato a riconoscere in quelle settimane nella celletta, voci di inservienti che discutevano di corpi da spostare e di gol annullati il giorno prima, e poi sentì una voce nota. Una voce bellissima che parlava la sua lingua, una voce che era venuta da lontano per firmare quelle carte necessarie per finire nelle fiamme. Letteralmente. Era Liuba, l’amata Liuba, era venuta in Italia per mettere la parola fine a quello strazio. Irina non lo sapeva, ma le sue colleghe badanti avevano fatto una colletta per rispedire in patria le sue cose, ma visto come si era sviluppata la storia avevano usato quei soldi per comprare a Liuba un viaggio in Italia e ad Irina un viaggio al caldo; fondamentale era stato l’aiuto della sua nonna di Casumaro, che dopo la sua morte ricordava spesso con rammarico di come agli inizi l’avesse trattata male. Pagare l'obolo per quell'ultimo viaggio le servì per sentirsi finalmente in pace.

Tutto successe veloce: la gioia scatenata dall’aver udito la voce della figlia fu così forte da stordirla, farle perdere il senso del tempo e dello spazio, e quasi senza accorgersene scoprì di trovarsi al caldo: il tepore saliva dal fondo del contenitore dove si trovava, lambendo ogni estremità di quel corpo che cominciava a non riconoscere più. Si ricordò di com’era bello avvicinare mani e piedi al camino dopo una giornata passata a lavorare all’aperto nell’inverno del suo paese. Tra quelle fiamme chiuse finalmente gli occhi, addormentata nel tepore e finalmente serena. Si svegliò solo dopo un tempo impreciso, per pochi secondi, quelli necessari a vedere un piccolo cimitero di campagna con le lapidi semi coperte di neve; su di una c’era una foto messa di fresco, era lei sorridente nel piccolo parco vicino al monumento, proprio vicino a quelle dei suoi genitori. Liuba aveva voluto quella foto, opponendosi al padre che voleva imporne una scattata quando erano giovani, con Irina fresca e sensuale, perché era così che lui la ricordava nei lunghi pomeriggi in cui se ne stava sprofondato in una poltrona sudicia, pieno di astio e sifilide.

Dalla tomba seguì alcune impronte, si accorse che le avevano appena lasciate Liuba ed Andrei. Stavano salendo sulla macchina del ragazzo; ebbe appena un secondo per sbirciare i loro volti e vedere dietro gli occhi gonfi ed arrossati finalmente un indizio di serenità. Capì in quel momento che poteva finalmente dormire in pace.

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