A poco più di un anno dalle Olimpiadi la Cina ha festeggiato nuovamente, con grandiosità analoga ma contenuti diversi: la massiccia sfilata militare, il discorso del presidente Hu Jintao e lo spettacolo pirotecnico hanno celebrato il 1 ottobre i sessant’anni della Repubblica popolare cinese, festa per ovvi motivi autoreferenziale e intrisa di patriottismo, a differenza dello spirito “globalizzato” che ha pervaso i Giochi olimpici. L’anno scorso la macchina dell’organizzazione ha lavorato per presentare la Cina ed i suoi cittadini al meglio delle proprie potenzialità, mostrando il volto buono della città, con i suoi volontari, la perfetta funzionalità e l’approccio “soft” del potere; una grande vetrina per la Cina ed un motivo di orgoglio per la popolazione, la realizzazione di un percorso durato 7 anni. Un evento però ormai chiuso, che avrà di certo lasciato una grossa eredità sia tangibile che spirituale, ma che nella realtà delle cose ha avuto riflessi soprattutto sui cittadini della capitale, e sui cittadini del resto del mondo. Il compleanno della Rpc è invece ricorrenza ben diversa: cade quel 1 ottobre in cui in un 1949 cronologicamente lontano e ideologicamente lontanissimo Mao Zedong proclamava sul rostro di piazza Tianan’men la nascita della nuova Cina; ma oltre all’aspetto puntuale ne ha anche uno continuativo: questa Cina che il Partito e la popolazione hanno celebrato celebrare è un’idea di nazione potenzialmente senza fine, nel pieno delle proprie forze e della propria coscienza nazionale, apparentemente al riparo da scosse interne che ne possano compromettere l’armonioso sviluppo. Nell’organizzare i festeggiamenti le autorità hanno mostrato i muscoli, l’opposto dell’anno scorso: non erano in arrivo “occidentali” pronti a scandalizzarsi e polemizzare per la presenza delle forze di sicurezza, mentre reale è la paura di azioni eclatanti provenienti dall’interno, in particolare alla luce dei tumulti di Urumqi del luglio scorso. Letteralmente centinaia di migliaia di poliziotti e militari per quasi un mese hanno pattugliato ininterrottamente la città, creando confusione negli occhi dello spettatore (in quello occidentale perlomeno): finalmente si riconosceva un regime in questo paese, ma all’apparenza un regime che non minaccia, che si limita a stare fermo nei luoghi sensibili con i suoi blindati e le sue truppe senza però mischiarsi alle faccende quotidiane. La volontà politica di ribadire che il potere è stabile nonostante gli scandali quotidiani, la corruzione, le disparità economiche e sociali e le rivolte sia etniche che sociali, mostrando la propria capacità di proteggere il cittadino ed allo stesso tempo bombardandolo di film patriottici e serial televisivi di stampo storico-rivoluzionario, che hanno sostituito i poster di propaganda del passato conservando lo stesso fine pedagogico-ideologico.
Tutta la Cina si è fermata, e si guardata indietro, con gli occhi su quella enorme piazza dove si sono alternate glorie e disastri: dal Movimento per la nuova cultura che fece nasce la nuova coscienza nazionale cinese nel maggio del 1919 alle adunate oceaniche di Guardie rosse adoranti il Grande timoniere, dalle infinite code di cittadini in lacrime per la morte di Mao nel 1976 fino al massacro degli studenti nel 1989. Ma poi subito di nuovo in avanti. Quest’ultima celebrazione ha marcato idealmente la chiusura del secondo macro ciclo della storia cinese contemporanea: dopo il trentennio di comunismo reale e di maoismo, si chiude il trentennio della riforme economiche e dell’esplosione dello sviluppo a livello mondiale inaugurato da Deng Xiaoping, che fu allo stesso tempo erede e distruttore di quello che Mao aveva costruito. L’ideologia egualitaria delle utopie fallite scavalcata dall’ordine di arricchirsi senza badare alla giustizia sociale, sostituita dalla mistica nazionalista per poter tenere unito questo quinto della popolazione mondiale ed infine affiancata dalla chiamata allo sviluppo di una società armoniosa che possa recuperare chi non ha tenuto il passo e rimediare ai guasti di uno sviluppo divenuto molto più che insostenibile, autodistruttivo. La Cina ha usato le Olimpiadi come biglietto da visita per entrare dalla porta principale nel salone delle nazioni che contano, ha scalzato senza troppe difficoltà gli altri interlocutori per mettersi direttamente a fianco degli Stati Uniti, pronta a dialogare più apertamente su tutti i temi scottanti, riscaldamento globale in primis, proprio in virtù della consapevolezza del proprio peso. Difficilmente si avranno cambiamenti drastici negli anni a venire: nella riunione del Comitato centrale del partito tenuta ad inizio settembre potrebbe essere già stato indicato il successore di Hu Jintao al timone del paese, ma le linee guida rimangono le stesse. Con la speranza che come è successo per i problemi ambientali, entrino in agenda con la stessa forza altri argomenti ancora tabù in Cina.
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