Dashanzi non è più come una volta. Il (o la?) 798, il primo villaggio degli artisti cinesi, l’ex area industriale colonizzata dai creativi con i loro atelier e le loro gallerie e fin da subito trasformatasi in luogo cult di Beijing per quell’atmosfera di avanguardia artistica post-socialismo ha negli anni cambiato faccia. Ne ho scritto diverse volte in passato: mi piaceva passeggiare in mezzo a capannoni e magazzini in disuso riempiti di opere d’arte, nonostante io e l’arte contemporanea viviamo su due mondi separati e difficilmente dialoghiamo. Ci misi piede in una giornata gelida d’inverno, e rifugiarsi nelle gallerie solo per scaldarsi era spesso vanificato dalla grandezza degli ambiente e dalla precarietà delle infrastrutture. Nel 2005 c’erano solo una bellissima libreria e un bar, o almeno io non vidi altro. Entrando si incrociavano operai che andavano o venivano dal lavoro, perché vi erano ancora fabbriche attive. Una volta fotografai decine di manifesti di educazione del lavoro e igienica in una lunga bacheca poco dopo l’ingresso principale, e sui muri si intravedevano gli slogan del socialismo. Gli anni sono passati, gli artisti sono aumentati e qualcuno ha fiutato il business. Hanno aperto decine di gallerie straniere, alcuni luoghi sono diventati bellissimi esempi di recupero dell’archeologia industriale, e l’atmosfera continuava ad essere quella alternativa ma anche chic. Era come entrare in un tempio dall’aspetto malmesso e polveroso e scoprire all’interno monaci ancora interessati alle preghiere piuttosto che alle macchine fotografiche...--br-- Ora invece mi ricorda di più la puzza di piscio dei cessi pubblici che si mischia ai profumi degli incensi da preghiera che si sollevano dal Tempio dei Lama: sono sorte decine di bar e ristoranti dai piatti occidentali e dai prezzi gonfiati, una miriade di negozi che vendono artigianato da due soldi, magliette di Che Guevara, Mao e Lei Feng, paccottiglia pseudo-artistica, ninnoli che al Silk market si trovano a prezzi dimezzati. Gira moltissima gente, ai bar sono seduti occidentali e cinesi belli e trendy che sorseggiano molto self-confident i loro cappuccini o i loro calici di vino, sentendosi finalmente parte del mondo artistico pechinese. Vorrei non dirlo ma anche la Nike ha aperto un suo spazio, in cui sono in mostra memorabilia sportivi e filmati storici; e devo ammettere che mi è piaciuta anche, ma non è il luogo. E nonostante tutto rimane un posto che cattura, non ha perso del tutto il suo fascino, racchiude in sé manifestazioni artistiche di tutte i tipi, dalla pittura alle installazioni alla fotografia, ed in alcune zone, le più fuori dalle strade principali, ha ancora quell’odore un po’ di casa occupata un po’ di laboratorio di menti elette. Dashanzi ha fatto scuola, sono nate altre aree analoghe nelle vicinanze, alcuni degli occupanti della prima ora si sono trasferiti; forse il 798 ha sacrificato sé stesso per le generazioni future, ha dato visibilità ad artisti sconosciuti vendendo parte del suo spirito iniziale. Forse ora guarda sereno i suoi discepoli.
Uscendo ho notato che nella bacheca su cui avevo fotografato i manifesti, quei manifesti non vi erano più, sostituiti da posters illustranti le varie esposizioni in corso nelle diverse gallerie. I casi sono due: o da quelle parti non vi è impiegato più nessun operaio, quindi non c’è più bisogno di educare sui rischi del lavoro, oppure si è deciso che è meglio educare il visitatore su quale esposizione potrà apprezzare varcando la soglia di Dashanziland.
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