Il 12 ottobre ho scritto un post su quello che sembrava il nuovo approccio di Obama nei confronti della Cina per quanto riguarda la questione Tibet. Allora in molti avevano storto il naso all'annuncio di Obama di non incontrare ufficialmente il Dalai Lama. Si era gridato allo scandalo ed al cinismo di quel presidente che si era fatto portatore di tante speranze. Ma in molti, tra cui il sottoscritto, avevano visto in questo non solo un gesto di opportunismo politico (un modo per non inimicarsi i cinesi poco prima di portargli visita a Beijing) ma piuttosto un indizio di una possibile nuova strategia, fatta non più di gesti tanto ecclatanti quanto spesso dannosi, ma piuttosto di un approccio più mirato per ottenere dei risultati veri. Giovedì scorso si sono riaperti i contatti tra le due parti, cinese e tibetana, con l'arrivo a Beijing di una delegazione composta dal braccio destro del Dalai Lama, Lodi Gyaltsen Gyari ed altri quattro ufficiali del governo in esilio tibetano. Non importa tanto di cosa si sia discusso (per inciso, Beijing sembra pronta a lanciare un nuovo piano di sviluppo per il Tibet: ancora sconvolta dalla ribellione in Xinjiang dell'anno scorso, potrebbe decidere per un approccio più soft nella questione tibetana) ma piuttosto come si è arrivati a questo incontro: senza alcuna apparente pressione internazionale, e senza nessuna campagna mediatica a fare da corollario. I tibetani non hanno rilasciato nessun comunicato ufficiale, non si è alzato nessun polverone per quello che era il primo incontro ufficiale tra le due controparti dopo la fine delle Olimpiadi del 2008. Il silenzio delle diplomazie in questi casi è per Beijing garanzia di affidabilità. Come ha fatto notare Francesco Sisci della Stampa, i rapporti tra Cina e Vaticano sono migliorati negli anni, pur rimanendo (o forse perchè rimasti) i contenuti politici nell'assoluto silezio stampa. Anche se si potrebbe obiettare che in questo modo si tengono nascosti eventuali segreti inconfessabili. Quindi stupisce che solo dopo pochi giorni si torni a parlare con forza dell'incontro tra Obama ed il Dalai Lama. Si potrebbe provare ad avanzare un'idea: l'incontro a Beijing, anche se non ufficialmente, doveva servire anche a chiarire la possibilità di questo incontro, che non è certo una decisione presa in qualche giorno. Forse quindi che quell'incontro sia andato così irrimediabilmente male da aver causato una presa di posizione forte da parte dell'amministrazione Usa? Fosse stato così, sembra sospetto che i cinesi non avessero fatto per primi un proclama, sarebbe stato facile per loro scrivere "Tibetani rifiutano la generosità cinese" all'indomani di un eventuale fallimento del dialogo. Forse dobbiamo inserire tutto in una lunga catena di eventi, che parte dalla questione Yemen, percorre le strade mediatiche del caso Google, attraversa il deserto persiano, prende il largo verso Taiwan per poi finire nel più antico dei dissapori geopolitici tra Occidente e Cina, ossia il Tibet? Una guerra a bassa intensità che le due potenze si sono dichiarate poco dopo i proclami di amicizia dell'incontro a Beijing dell'anno scorso? Ma allora forse quell'incontro non doveva cementare se non un'amicizia quanto meno un'intesa ed un reciproco riconoscimento, quanto piuttosto permettere ai due attori di studiarsi da vicino in vista dello scontro?
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